Impossibile nascondere quanto la Formula 1 stia aumentando la propria ricchezza ed esposizione mediatica, anche se ogni tanto farebbe bene anche fermarsi a prendere fiato e nota delle incoerenze che fanno parte di questo sport. Come il fatto che nel 2020 venne lanciata la campagna #WeRaceAsOne per rimuovere le barriere sociali presenti nella Formula 1, e che pochi mesi dopo si sia firmato per delle corse in Arabia Saudita e Qatar. Paesi dove l’omosessualità è considerato un reato punibile addirittura con la pena di morte. La gara del Bahrain si sta avvicinando, e con lei torna il dibattito tra la Formula 1 e i paesi che ancora non rispettano i diritti umani. In Bahrain l’omosessualità non è perseguita penalmente, anche se le violazioni dei diritti umani sono continue, con torture, maltrattamenti, soppressione della libertà di espressione e di riunione. Il calendario del 2023 ha al suo interno una gara che fa discutere, che si terrà nell’Arabia Saudita, finita nel mirino della critica anche per quanto riguarda la sicurezza.
Questo inizio di Mondiale ha fatto si che Paul Scriven, membro della Camera dei Lord britannica, portasse avanti la sua lotta contro la Formula 1 e i rapporti che intrattiene con i paesi che violano i diritti umani: “Ci sono due strade che la F1 può percorrere. Una è quella del vuoto morale verso il quale sembrano andare i leader e gli amministratori. L’altra strada è quella che alcuni piloti stanno prendendo. Questi piloti capiscono di poter usare la piattaforma non solo per il bene dello sport, ma per il bene e per il cambiamento. In più capiscono che non possono ignorare le violazioni dei diritti umani nel paese in cui guidano“. Scriven tende a sottovalutare il fatto che la Federazione abbia imposto ai piloti il silenzio totale su argomenti politici e religiosi durante i weekend di gara, salvo alcune eccezioni.