Scende dalla macchina e piange, Rubens Barrichello. Si sfila a fatica dalla Toyota Corolla che lo ha accompagnato al successo e corre dagli uomini del suo team, Full Time Sports, dai figli Fernando ed Eduardo, per tutti Fefo e Dudu, da chi lo accoglie e lo acclama dentro al paddock della sua Interlagos.
È a casa, Rubens. Nel suo Brasile, terra di motorsport, tra le curve di una passione che non è mai tramontata. Non dopo gli anni in Formula 1, non davanti al tempo che passa, ai suoi 50 anni compiuti, a una carriera che potrebbe dirsi felicemente conclusa. È a casa, Rubens, e adesso può festeggiare. Può piangere e può gridare, perché ha vinto il campionato Stock Car Brasil in un weekend di gioia immensa per i Barrichello: la vittoria del figlio Fernando il sabato nell'ultima tappa della stagione di Formula 4 brasiliana, la presenza della famiglia al completo, anche dell'ormai ex moglie Silvana, che con Rubens e i due figli si stringe in un abbraccio da branco, uno di quelli che sembra dover tenere insieme i pezzi di tutto, pieno di lacrime e di consapevolezza.
"Sei un mito, dentro e fuori dalla pista" gli dice Dudu, il figlio maggiore. E ha ragione. Perché le lacrime di Barrichello, il suo bisogno di adrenalina, di competizione e di velocità, ci insegnano una lezione di vita tra le pagine del motorsport. Che la passione resiste al tempo, agli addii, al dopo Formula 1 e ai cocci di una vita di grandi soddisfazioni e di altrettanto pesanti, insopportabili, delusioni. Che non si è mai troppo grandi, o troppo vecchi, per piangere, per emozionarsi, per gridare in un paddock "questo è il giorno più bello della mia vita", ed esserne convinti davvero. Puri, pieni, densi di sentimenti veri. Che quando un amore è condiviso, come quello del motorsport per tutta la famiglia Barrichello, le angosce sono sottratte e le gioie moltiplicate, per un padre che vede vincere un figlio e per un figlio che ha ancora la fortuna di veder vincere un padre.
E che le cose della vita si superano così, con la grinta di chi a 50 anni ha ancora voglia di mettersi in gioco. Potrebbe sedersi dentro al box e semplicemente seguire i figli nella scalata verso il tentato successo nel motorsport, papà Barrichello, ma non vuole dire basta. Lui che ha sconfitto un tumore nel 2018, che ha affrontato la stigmate del secondo pilota, alle spalle di Michael Schumacher, ma che dentro a quel rapporto ha coltivato un'amicizia fatta di consapevolezza, gioco di squadra e indimenticabili feste in maschera. Lui che è stato benedetto, all'inizio della sua carriera, nel venerdì di quello che sarebbe rimasto nella memoria di tutti il weekend nero di Imola 1994. Un incidente a 200 km/h da cui uscì con una frattuta al naso, alcune costole rotte e con un vuoto di memoria in quei giorni terribili che, nella domenica di gara, si conclusero con la morte del suo mentore e mito Ayrton Senna.
Questo ci insegnano, nel giorno del successo a Interlagos, le lacrime, le grida di gioia e gli abbracci di Rubens Barrichello. Una lezione per chi non vede un mondo fuori dai pochi anni di eccellenza della vita di un pilota. Un mantra per chi pensa di non aver più niente da dare, da dire, da dimostrare agli altri e a sé stesso. Perché si può ancora vincere. E si può ancora piangere.