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La Formula 1 sbarca in Arabia Saudita:
adesso i diritti sociali non importano più?

  • di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

5 novembre 2020

La Formula 1 sbarca in Arabia Saudita: adesso i diritti sociali non importano più?
Nell'anno del "We race as one", del minuto di silenzio per il razzismo, degli inginocchiamenti pre gara per il BLV e dei paddock arcobaleno... la Formula 1 annuncia che dal 2021 si correrà in Arabia Saudita

di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

"Corriamo per qualcosa di più grande. Per i lavoratori in prima linea, l'inclusione e l'uguaglianza". Scriveva così, la pagina uffiale della Formula 1 a inizio stagione, in uno psichedelico mix di colori sotto il segno dello slogan "We race as one".

Corriamo come uno solo. La nuova politica di Liberty Media, la compagnia americana che gestisce la Formula 1, in un clima di novità e di cambiamento che ha dominato il corso di quest'anno. Capofila Lewis Hamilton, pugno alzato per il Black Lives Matter e magliette dai messaggi profondi sempre indossate durante i weekend di gara. Dietro al sei volte campione del mondo tutti gli altri: safety car con arcobaleni, livree antirazziali, polemiche ecologiste, minuti di silenzio per le battaglie sociali, grandi dibattiti su chi si inginocchia per il BLM, chi no, e perché. 

Poi, neanche tanto improvvisamente, la Formula 1 ha annunciato candidamente che dal 2021 correrà in Arabia Saudita. 

Bello eh: un programma in notturna per una gara che si prospetta accattivante. Ma i diritti sociali? I discorsi sul "correre per qualcosa di più grande"? 

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Sarebbe questo quel qualcosa di più grande? Portare il grande baraccone della Formula 1 in un paese che - professando la Shari'a - infligge la pena di morte per reati come la stregoneria, l'adulterio, l'omosessualità e l'apostasia, ossia la rinuncia alla religione islamica. 

E professare la volontà di aiutare a inserire le donne nel mondo della F1 andando a correre - e portare soldi - in un paese in cui le donne sono meno di niente. In cui, per gentile concessione, da quasi due anni possono guidare ma sempre sotto il consenso del loro tutore. Perché in Arabia una donna ha sempre un uomo che decide per lei: il padre prima, il marito poi, e il figlio alla fine. 

Questo è il modo in cui la Formula 1 ha deciso di correre per qualcosa di più grande? 

Chissà che cosa ne pensano gli amici dell'Arabia Saudita, dove i processi (quando ci sono) sono spesso arrabattati e si concludono con lunghe torture in carcere, di poster colorati e gli adesivi politically correct sulle monoposto milionarie di questi privilegiati ragazzini occidentali. 

Eccola qui: l'ipocrisia di un mondo luccicante che - per quel weekend in Arabia Saudita - nasconderà da qualche parte gli arcobaleni e le t-shirt con i messaggi sociali. Perché ok la campagna marketing sulle minoranze, ma quando il Dio Denaro schiocca la frusta si accendono i motori anche dove quelle minoranze vengono torturate, imprigionate, uccise. 

Però, we race as one. 

 

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