Quando risponde al telefono, risponde col suo nome: Mino. Mino Raiola è il manager di Ibrahimovic, di Pogba e di altri fenomeni che giocano a calcio. Monaco di Montecarlo, martedì mattina. Dovevamo vederci il giorno prima ma via sms mi aveva avvertito che non poteva, che doveva essere a Maranello. E qui anche chi non mastica di cronaca sportiva sa che a Maranello un essere umano ci va per fare due cose: o lavorare per la Ferrari o comprarsene una. E Mino non dipende da nessuno. Mino se mai dipendesse da qualcosa, dipende da una cosa da cui dipendiamo tutti noi, il mercato
Mino Raiola è stato nominato miglior agente del mondo. Noi lo abbiamo incontrato a Montecarlo e lui ha spaccato tutto. «In Italia dovrei fare il procuratore dei politici, con quelli che passano da destra a sinistra ci farei i miliardi». «I cinesi del Milan? Solo speculazione». Su Rai Sport, in una trasmissione dedicata a lui, qualcuno ha detto che si veste da Piazza Italia e che parla un italiano maccheronico. Mino non smentisce né una né l’altra cosa. Mi viene a prendere guidando una Porsche Cayenne bianca, ha occhiali Cartier, una tshirt con collo a V che mette in evidenza due cose: la pancia e la ricrescita dei peli sul petto. Accanto c’è suo cugino Vincenzo che lavora con lui. Mi portano su e giù per le strade di Monaco.
Mino Raiola racconta: «Ci vivo dal '95, la gente pensa che sono andato via per le tasse ma non è vero, è che qui la qualità è altissima. Qualità e benessere. Io quando mi arrabbio con l’Italia, con il governo, il calcio e tutto quello che è, lo faccio perché a Monaco vedo che le cose funzionano e mi chiedo: perché noi non lo possiamo fare? Perché non lo vogliamo.
In Italia dove c’è la voglia di qualcuno c’è sempre l’ostruzione di qualcun altro. In Italia non si vive per costruire, si vive per demolire. Quando io andavo a scuola in Olanda ci insegnavano che la politica non è una carriera ma è un servizio che rendi al tuo Paese, ti fai uno o due mandati e poi torni a fare il tuo lavoro. Cioè, ti immagini avere una legge così in Italia? E invece in Italia abbiamo il politico professionale e anche il figlio del politico professionale».
Rallenta davanti a un palazzo: «I miei uffici sono lì. Stiamo aprendo anche in Cina e ne ho altri in Brasile dove ho aperto una struttura che è un orgoglio, è stata fatta per portare i ragazzini a scuola, tenerli lontani dalla strada, dalla droga, poi certo da lì stanno uscendo giocatori importanti». Poi riparte e riparte anche con il monologo contro il sistema Italia. «È come un giocatore che ha talento e non lo sfrutta. In Italia io vorrei fare il manager e il procuratore dei politici, perché allora sì che mi faccio un impero miliardario in Italia, perché i politici passano da destra a sinistra come se nulla fosse. A parte gli scherzi, il mio sogno è fare qualcosa per migliorare il nostro Paese».
Lasciamo l’auto davanti al ristorante La Piazza. Un concierge prende le chiavi, noi andiamo a sedere. Ordina acqua e un piatto freddo. Do le spalle alle strade, Mino Raiola si sporge di lato e comincia a urlare: «Flavio! Flavio!». Mi giro. È Briatore. Che viene al nostro tavolo. Parlano di Balotelli, poi Flavio gli fa: «Ho saputo che ieri eri a Maranello» . «Sì» risponde Mino. «Sono andato a configurare una Alfa Romeo Quadrifoglio». Dopo i saluti, ricomincia l’intervista.
Dicono che le vendite della Quadrifoglio non vanno affatto bene. «Gliele faccio alzare io le vendite…». Perché ti interessa tanto il sistema Italia? «Perché alla fine io sto parlando del mio sport, del mio lavoro, della mia industria, se tu migliori il Paese, migliori tutto. Perché il calcio è uno specchio del Paese, lo è sempre stato».
Roma 2024: eri contrario o favorevole alle Olimpiadi? «Contro. Perché? Perché noi abbiamo bisogno delle Olimpiadi per fare le grandi opere a Roma? Se noi crediamo in questo perché non le facciamo senza le Olimpiadi?».
Hai delle idee un po’ da Movimento 5 Stelle. «No. Io sono un supercapitalista. Il supercapitalista vuole tutti più ricchi. E io sono così. Io voglio che diventano tutti ricchi nel calcio, così posso offrire grandi contratti a grandi giocatori, il sistema diventa più ricco, diritti tv più ricchi, tutti più ricchi».
Il calcio specchio del Paese: come li vedi questi cinesi del Milan? «Non mi fido. Uno che va dal notaio e dà la caparra per la casa e fa il rogito, e alla fine il rogito è finito e non si va a prendere la casa, è una cosa molto strana, perché uno quando fa il rogito vuol prendere possesso della casa. Mi sa molto di speculazione. Con Thohir lo avevo detto: “Non è niente, è lì per rivendere l’inter o portarla in borsa”».
E adesso, con Suning? «Grande realtà finanziaria in Cina. L’ho studiata, perché sono due anni che mi contattano, ma io le cose le faccio quando sono pronto io. È una società preparata, credo che vogliano fare un progetto vincente, credo perché poi non si può sapere…».
Torniamo al Milan: te l’aspettavi l’esplosione di Locatelli? «Lo seguiamo da quand’era piccolo, sappiamo che è un ottimo giocatore… Ma chi vuole che io lo segua deve cercarmi, non vado a chiedere».
C’è scritto pure nell’autobiografia di Ibra. «Sì, lui disse a Maxwell che potevo chiamarlo. Io gli risposi che non lo chiamavo di sicuro».
Nel libro in realtà si usa un’altra espressione: dì a questo Zlatan di andarselo a prendere nel culo… «Sì, sì, ci mandiamo ancora affanculo». Quanto lavori? Qual è la tua giornata tipo? «Mah viaggio tanto, adesso sto creando altre aziende, sto creando un mio fondo di investimenti, una start up sulle energie rinnovabili. Normalmente il mio lavoro è di andare a trovare le società e di conseguenza i giocatori, dove non c’ho i giocatori vado a trovare solo le società per vedere come sono messi, le idee, i loro progetti. Molti procuratori non sanno in che ambiente vanno a finire. Devi avere sempre una visione completa, se no non fai la differenza. È facile fare il contratto a Donnarumma, è più difficile consigliarlo bene per il futuro… Se oggi faccio il contratto a Donnarumma per una società in declino totale, che faccio, mi sparo? Io a Gigi devo dargli l’assoluta certezza che lui sta in un club di un certo spessore o che se non è di un certo spessore, sappiamo che non è di un certo spessore e scegliamo di esserci o no… Ma non come oggi, che non sappiamo che siamo in un progetto per vincere la Champions, o un progetto che…».
Ma tu hai un rapporto chiaro con Galliani, no? «Ma Galliani fa gli interessi della Fininvest, quindi io non posso chiedere a lui certe cose… E comunque con lui c’è un rispetto reciproco. La gente non sa che su ogni trattativa litighiamo di brutto. Tant’è che alla prima o seconda presentazione di Balotelli al Milan, io non non c’ero. Perché lui è fatto come me: il suo vero amore è il Milan. Per me il vero amore sono i miei figli, però i miei giocatori li tratto come tali. Perciò ci andiamo giù duro uno contro uno, ma sappiamo che non è una cosa personale: è una cosa di due pugili che vanno sul ring e dopo si rispettano. A me dà molto fastidio che dicono male di Galliani, che credo sia una delle icone del calcio, perché ciò che ha fatto per la società è straordinario. Poi tutti sbagliano, io sbaglio ogni giorno. Chi non sbaglia? Chi non fa niente…».
Se chiudi gli occhi qual è il primo ricordo che hai? «Da bambino, mia nonna. Avevamo un rapporto straordinario. Era analfabeta, ma mi ha cresciuto, e ho sempre detto che la donna più intelligente che ho mai conosciuto era lei. Era salita su in Olanda con la famiglia e lei ha cresciuto tutti i nipoti e lavorava, era una donna che il suo ego non contava, era una persona a disposizione di tutti, cucinava per chi tornava la notte, quando non aveva niente da fare lavava e puliva nel ristorante, puliva le salviette e tovaglie così risparmiavamo soldi, e la mattina quando ti svegliava alle sette trovavi già la salsa pronta fatta da lei».
Cultura del lavoro… «No. Cultura dell’amore! Per la sua famiglia, i nipoti, per gli altri. Era devota a Santa Maria. Io credo che nessuno riesce a fare bene il proprio lavoro se non vuole servire gli altri. Io questo l’ho imparato. Devo lavare a terra al mio giocatore e lui gioca meglio? Io lavo a terra, nessun problema. Bisogna aiutare gli altri. Poi uno dice i soldi i soldi… Sì i soldi, ma sono un outcome di un lavoro ben fatto».
La tua biografia racconta che hai cominciato come interprete di Bryan Roy… «Sbagliato, ero il suo agente e quindi gli facevo anche da interprete. Ma la mia carriera è iniziata a 17 anni quando ho fondato una azienda di intermediazione. Vuoi ridere? Si chiamava Intermezzo spa».
Cosa intermediavi? «Tutto. Avevo un sacco di clienti che facevano affari in Italia. E avevano un sacco di problemi. Dato che io gestivo il ristorante di mio padre, un giorno a un cliente che aveva un problema con una persona gli ho detto “dammi il telefono che ci parlo io”, perché sai, quando sei cresciuto in un ristorante è come se sei un assistente sociale… io sapevo i cavoli di tutti… avevo 18 anni e mi chiedevano consiglio a me se dovevano divorziare. Che ti devo dire, ero bravo a mettere d’accordo due persone. Così dissi: qua faccio la società, mi facevo pagare come un consulente. Ho venduto macchine per il riso, ho risolto problemi per immobili. Il mio ristorante era uno spettacolo, uno dei clienti era il presidente dell’Harleem e io gli dicevo: non capisci un cazzo di calcio, un giorno si stufò e mi disse: fallo tu il direttore sportivo. Entro e trovo un sistema sbagliato nella vendita dei giocatori olandesi».
Spiega meglio. «I giocatori olandesi, se venduti tra società olandesi avevano un costo dettato da parametri fissi. Mentre le società straniere no. Quindi io cosa ho fatto: ho proposto alle società italiane di far acquistare i giocatori all’Harleem per conto loro e poi rivenderglieli a costi più bassi rispetto a quelli che avrebbero avuto se si fossero rivolte direttamente alle altre società come l’Ajax o il PSV. Cresciuto in una famiglia napoletana era normale che contattassi subito il Napoli. Quando gli spiegai il progetto dissero: cazzo, quest’è geniale… Il Napoli disse: chi prendiamo per test?, io risposi un giocatore della primavera dell’Ajax. Era Bergkamp».
Ma Ferlaino non pagò. «Quella volta lì non lo prese, ma poi anni dopo fece di tutto per prenderlo… Io all’epoca volevo vendere Bergkamp e Jonk insieme». Che poi hai venduto all’Inter. «Sì ma in Italia era difficile lavorare, dovevi passare per forza tramite delle strutture, invece io me ne fregavo e parlavo direttamente con le società».
E non ti hanno mai messo i bastoni tra le ruote? «Euhf! Un sacco di volte. Ma più mi metti i bastoni tra le ruote e più mi diverto, se no che sfizio c’è?». E da dove nasce questo senso della sfida che hai? «Guarda, io sono così anche a tavola: o mangio tutto o niente. O faccio sport per essere il migliore o non faccio niente. Probabilmente arriva dai miei. Mio padre è un perfezionista nel suo lavoro, e io da lui ho preso quello. Mia madre è molto ambiziosa. Mia madre ci ha insegnato di migliorarci sempre, di migliorare te stesso. Mio padre non è interessato ai soldi, per comprargli un paio di pantaloni devi puntargli una pistola… Forse lui non lo sa neanche, ma è stato la persona più importante della mia vita perché non mi ha mai dato ostacoli, non mi ha mai detto che ero pazzo».
Riesci a trasmettere le stesse cose ai tuoi figli? «Sì, lo dico a tutti, anche ai miei figli: non sognare in piccolo, non pensate alle impossibilità ma alle possibilità; io mi arrabbio molto coi miei figli quando mi dicono “questo non si può fare”… Che cosa? Tutto si può fare. Se hanno inventato i telefoni che si toccano, che ci possiamo mandare le fotografie, che ci possiamo guardare fra uno e l’altro… tutto si può fare».
Solo con l’affare Pogba, dalla Juve al Man United, dicono che ti sei messo in tasca circa 25 milioni di euro. Da quanto tempo non guardi il conto corrente? «Mai guardato in vita mia. Odio le banche. La mia azienda non è mai stata finanziata dalle banche, è sempre stata finanziata dal mio lavoro, dai miei investimenti; ho un fiscalista di mia fiducia che si deve occupare di tutte le cose di banca e il direttore di banca che sa che io lì non ci voglio nemmeno entrare».
Quanti soldi hai in tasca? «Spesso niente. Mia moglie a volte mi dice: ti prendi venti euro?». Tua moglie riesce a starti dietro? «Ormai siam cresciuti così, 25 anni che siamo insieme, ci vediamo poco, è il grande segreto del successo». Lei è di Foggia.
Ma l’hai conosciuta quando… «Quando portai Brian Roy da Zeman. Quell’anno fu importante per me. Casillo, il presidente del Foggia, mi pagava le spese per girare l’Italia e diceva a tutti che ero un fenomeno, che gli avevo fatto prendere Roy a due milioni quando la Fiorentina due mesi prima aveva offerto all’Aiax 15 milioni. E poi Zeman, era molto esigente. Non gli andava mai bene un giocatore, e io ero spinto dal trovargli qualcuno su cui non poteva dirmi niente… E lo trovai. Era Nedved. Quando glielo dissi quasi gli cade la sigaretta dalla bocca. Rispose: “Io non vado nel mio Paese con un procuratore, se voglio un giocatore del mio Paese me lo prendo da solo”. Non l’ho ascoltato e dopo 3 mesi ho preso Pavel e…lui m’ha insegnato tanto. Nessuno mi ha dato tanto come Pavel. Se non hai conosciuto o lavorato con Pavel, non puoi avere la mia fortuna».
Cosa ti ha insegnato? «Il lavoro. La correttezza. De Mita, il figlio del politico no?, ogni giorno a Pavel diceva che doveva cambiare procuratore e andare dalla Gea del figlio di Moggi, Lippi e Geronzi, e io a Pavel dicevo: chi sta con la Gea è giocatore che ha paura. Adesso è un grandissimo dirigente. Non sono juventino però devo dire che la Juve è una società gioiello. È molto più organizzata la Juve del Real o del Barça. Il management della Juventus è di più alto livello di tante società che io vedo fuori Italia. Io dico non si vince per caso».
Chi è l’uomo forte là dentro? Marotta, Paratici… «È molto forte il merito dello stile che impone Andrea Agnelli». Se dovessi spiegarlo in un workshop, come lo spiegheresti questo stile? «Eh ci ho pensato anch’io tante volte… Cerco anch’io di farlo con la mia azienda, invece di fare tutto in prima persona bisogna far crescere le persone intorno a te, così diventi più forte tu per primo. Lo rispetto molto, lo ammiro per questo, perché oggi ti dico un esempio… il calcio, oggi il calcio non è solo il calcio. Ci sono due partite da giocare: calcio industria e calcio giocato. Nessuno può avere il cento per cento di know how di tutti e due. Quindi hai bisogno di specialisti. Io nella mia azienda adesso ho uno specialista in diritto e uno in immagine. Io non posso fare anche questo».
Quanti dipendenti hai? «Sette… Mio cugino, ora, è quasi indipendente, è diventato sempre più forte. Sbagliando sbagliando è diventato più forte». Come si fa a lavorare per te? Compilare un form? «No, no, li ho trovati tutti per caso, vado a feeling. Per me la cosa più importante è la fiducia, devo avere la mia stessa energia e le mie buone intenzioni… Se riescono a fare quello che faccio io per i miei giocatori… Perché è particolare il lavoro per i miei giocatori, il mio non è un negozio che chiude alle 6. Non bisogna vergognarsi per esempio di fare un trasloco per un proprio giocatore. L’altro giorno ho visto l’intervista di Simon Peres, diceva una cosa molto interessante: non credere nel tuo ego, ma mettiti a disposizione degli altri. Io credo che questo sia il segreto. Simon Peres l’ho sempre ammirato. Nel calcio specialmente ci prendiamo troppo sul serio, ma le vere trattative sono far convivere Israele con la Palestina e io mi chiedo come cacchio fanno queste trattative… Vorrei esser dentro una trattativa così. Perché se avessi risolto questo problema 30 anni fa oggi non avremmo il terrorismo».
E Moggi? «In uno dei miei primi giri in Italia, io ero andato a trovare a Torino. Tutti mi dicevano: vai a trovare Moggi, è importante… io non sapevo chi era. Appuntamento alle 22.30, io alle 22.15 mi presento alla segretaria e questa mi dice: “Si accomodi”. Solo che nella sala c’erano 30 persone. Ore 22.30: nessuno. 22.45: nessuno. Vado dalla segretaria e dico: “Scusi, ma il signor Moggi?”. E lei mi fa: “È impegnato, si accomodi, quando il signor Moggi ha tempo…”. Io aspetto ancora cinque minuti e poi me ne vado. Lo trovo al ristorante famoso Da Maria, a Torino. Vado da lui e dico: “Moggi, sono Raiola”. E lui: “Ah sei tu Raiola? Ah sì? Ah tu la devi finì di fa’ lo stronzo, hai capito?”. E dico: “Senti signor Moggi, le dieci e mezza son le dieci e mezza”. “Oh stai calmo Raiola, che tanto se vuoi vendere giocatori devi passare da me, hai capito? Se no non li vendi”. Io dico: “Io o vendo o non vendo giocatori in Italia, da mangiare ce l’ho sempre”. Per me da quel momento lì era guerra. Quando mi presentavo a una società dicevo: una cosa deve essere chiara: io non sono amico di Moggi. E quindi scoprii molto velocemente che questa cosa che Moggi controllava il calcio era la più grande stronzata che c’era in Italia, perché lui controllava chi credeva che lui controllava, in realtà non controllava niente. Dopo però è nato un grande rapporto che continua tuttora».
Credi in Dio? «Sì. Credo in una potenza più forte di noi. Perché la parola credere implica il non ragionare. Credo anche perché ho visto in mia nonna la personificazione del bene. Per me mia nonna era, è una santa». Quando parlano di te il nome successivo che viene citato è quello di Jorge Mendes. «Siamo cose diverse. Lui è un investitore e lo rispetto, ma io ho messo l’interesse dei miei giocatori davanti al mio. Non credo che per i suoi giocatori Mendes farebbe un trasloco. Chi mette il mio nome accanto al suo e a quello di Kia Joorabchian non ha capito un cazzo dalla vita».
Quando li senti i giocatori? Ci sono dei riti precisi? «No, dipende dal giocatore. Pavel ti chiamava una volta ogni tre mesi, Zlatan può chiamarmi anche cinque volte al giorno, Mario mi può chiamare tre volte in 10 minuti, poi se le cose vanno come dice lui non ti chiama per tre settimane e poi quando lo chiami tu, ti fa: “Che è successo?”. È cresciuto molto ultimamente».
Quante partite guardi a settimana? «Guardo estratti di cose che mi interessano. Non c’è bisogno di tutta la partita per vedere certe cose. Capisco dopo 20 minuti se un mio giocatore giocherà bene o male. Poi il procuratore non è quello lì che ti dice che hai giocato male, non è solo quello, il procuratore deve conoscere il proprio giocatore, i suoi sogni, le sue mete».
Ultima volta che hai fatto l’amore? «Per me sesso, amore e finanza sono privacy». Mai pagato? «No, anche perché essendo già stato io vecchio da giovane, un giovane vecchio, ho sempre frequentato donne più grandi di me, a 16 anni avevo una donna di 28, mi hanno cresciuto le donne più grandi di me, non ho mai avuto modo o necessità di essere insegnato dalle prostitute. In Olanda molte prostitute erano clienti del mio ristorante. Per loro ho un grande rispetto dato che fanno un lavoro difficile e molto apprezzabile».
Sei bravo a letto? «Da giovane credevo di esserlo. Sai, la virtù della giovinezza. Adesso non devo essere io a giudicarlo». Quanto ti dà fastidio che la tua qualifica sia la stessa di Wanda Nara? «Chi?» La moglie di Icardi. «A me non me ne frega niente, non la conosco, per me il procuratore lo può fare pure il concierge del palazzo, è il giocatore che decide chi lo fa e di chi si fida, poi sai se Icardi crede che la migliore trattativa la possa fare la sua donna, bene per lui».
Mino Raiola come vorrebbe morire? «Felice». E cosa ci scriviamo sulla tomba? «Non mi interessa. Non mi è mai interessato di quello che pensano di me, fuori la mia famiglia e i miei amici, che sono pochi».