Ormai ci siamo. Il 13 febbraio iniziano le regate per stabilire chi sarà il vincitore della Prada Cup e di conseguenza lo sfidante del Team New Zealand per la conquista della Coppa America. Luna Rossa scenderà sul campo di regata contro gli inglesi di Britannia Ineos in una fida al meglio delle 13 regate che si preannuncia emozionante e ricca di colpi di scena.
Raggiungo telefonicamente Davide Tizzano per chiedergli un parere, ma l’occasione è troppo ghiotta per non parlare anche di altro con lui che, oltre ad aver regatato in Coppa America sul Moro di Venezia vincendo la Louis Vuitton Cup, è stato anche due volte oro Olimpico nel canottaggio e ha scritto pagine di storia dello sport insieme ad Agostino Abbagnale e… Giampiero Galeazzi.
Partiamo dall’attualità: come vedi questa finale di Prada Cup?
Apprezzo prima di tutto l’idea di Patrizio Bertelli che ha voluto sposare con il suo brand le regate per la scelta dello sfidante.
E Luna Rossa?
Luna Rossa mi piace e tanto. Una barca di Coppa America non è soltanto un oggetto galleggiante, ma è tecnologia, organizzazione, comunicazione, ricerca, sviluppo. È saper fare squadra e questo equipaggio mi fa sentire fiero di essere un velista italiano.
Che finale sarà?
Saranno delle belle regate. Il team inglese da Natale a oggi ha fatto un bel salto in avanti e anche noi siamo cresciuti tanto, sia come imbarcazione sia come equipaggio. Percepisco più consapevolezza dentro Luna Rossa. Sarà uno spettacolo.
Ho probabilmente io una visione troppo romantica della faccenda, ma vedere le barche andare così veloci fa sembrare tutto un videogame. Tu che idea ti sei fatto?
Sono consapevole che il velista della domenica non riuscirebbe a timonare un’imbarcazione con i foil capace di andare a 50 forse anche 60 nodi. Ma un conto è la vela tradizionale, quella romantica, partecipata dall’equipaggio con i cambi di vela e le virate in zona di boa e un conto è la Coppa America. È come se paragonassimo l’utilizzo quotidiano della macchina con la Formula uno. Sono due cose diverse. Però magari se oggi abbiamo il sistema abs su tutte le macchine è perché qualcuno venti anni fa l’ha immaginato sulle F1. Ad oggi non si erano mai viste imbarcazioni in grado di triplicare la velocità del vento.
Facciamo un salto indietro di trent’anni. La tua Coppa America col Moro di Venezia. Che ricordi hai?
Mi emoziono ancora oggi nel ripensarci. Credo sia stato uno dei periodi più belli per la vela italiana. Scendevamo in acqua con i primi AC (America’s Cup Boat ndr), una classe nuova che sostituiva i 12 metri delle barche che fino a quel momento avevano fatto la storia della competizione. E in questo senso il Moro di Venezia fu un precursore con Raul Gardini e Paul Cayard. L’idea di Gardini era quella di affermare sul mercato americano la tecnologia italiana. Penso al carbonio Montedison, ai compositi, al kevlar filato che era una novità assoluta e alla prima vela in carbonio che fu nostra, realizzata in accordo con North Sail.
Parliamoci chiaro: sei uno dei pochi esseri viventi che può raccontare durante una cena di aver battuto i neozelandesi su un campo di regata. Come andò la finale di Louis Vuitton Cup? Fu una grande rimonta…
Partimmo malissimo. Loro andarono in vantaggio e sul 4-1 Gardini e Cayard fecero ricorso per un uso improprio del bompresso che secondo noi faceva il team New Zealand. Fu accettato, fu scalato un punto a loro e partì la nostra rimonta. Le vincemmo tutte e finì 5-3 per noi. Vincemmo la Coppa degli sfidanti e il diritto di giocarci la Coppa America.
Ho recentemente trovato un video su YouTube in cui anche l’avvocato Agnelli intervenne in diretta TV per commentare la questione del bompresso. Eravate davvero entrati nel cuore di tutti.
Entrammo nel cuore degli italiani per due ragioni: primo perché sportivamente fu una grande rimonta sportiva e poi perché quelle erano le prime regate con telecamere e microfoni a bordo. La gente da casa iniziava a capire cosa succedeva su una barca di Coppa America.
Poi la finale che valeva la Coppa America andò diversamente…
C’era un gap tecnico incolmabile con America³. Noi avevamo una barca larga 5 metri, loro erano quasi la metà. Perdemmo, ma si scrisse una bella pagina per lo sport italiano. Ancora oggi come Moro di Venezia siamo l’unico equipaggio italiano ad aver vinto una regata in una finale di Coppa America.
Torniamo al presente. Su Luna Rossa in questo momento c’è Romano Battisti, un tuo “collega canottiere”. Come si passa dal canottaggio alla vela?
Ci sono due i canottieri in equipaggio: Romano Battisti, argento olimpico (Londra 2012 ndr) ed Emanuele Liuzzi, medagliato mondiale. Romano è un titolare inamovibile mentre Liuzzi ruota. Sulle barche c’è sempre stato bisogno di forza fisica, allenamento, resistenza e per questo noi canottieri siamo molto ambiti. Abbiamo il culto del duro lavoro, sappiamo stare al posto nostro e facciamo squadra.
Praticamente siete perfetti.
Esatto. E inoltre c’è un legame molto forte tra questi due sport. Penso ai più importanti circoli italiani: L’Aniene di Roma, il Canottieri di Napoli, il Reale Canottieri Savoia sempre di Napoli che hanno tutti una doppia anima: canottaggio e vela.
So che Battisti si è confrontato con te prima di tentare la strada per Luna Rosa. Che gli hai detto?
Mi chiese una mano perché non sapeva da dove iniziare. Gli ho detto vieni parliamone, l’ho portato in acqua, abbiamo chiacchierato e gli ho dato qualche consiglio. Lui si è messo a studiare ha fatto esperienza su barche più piccole ed ero certo che nel momento in cui Max Sirena, il responsabile dell’equipaggio di Luna Rossa, lo avesse visto all’opera sarebbe entrato in squadra. È serio, per bene, lavora tanto ed ha forza mentale e fisica.
E tu invece?
Per me il salto fu facile. Per me parlare di canottaggio o vela è davvero la stessa cosa.
Oro a Seul nell’88 nel 4 di coppia. Oro ad Atlanta nel 96 nel 2 di coppia con Agostino Abbagnale. In mezzo – nel 1992 – ti prendi un rischio: non fai le olimpiadi di Barcellona e insegui la Coppa America. Come fu il passaggio?
Quando sono arrivato al Moro di Venezia pesavo 88 chili e mi dissero che dovevo seguire un programma di allenamento per adattarmi al lavoro sulla barca. Dopo un anno pesavo 98 chili ed ero cambiato. Avevo rafforzato la parte alta del corpo e mi ero alleggerito sulle gambe che sono fondamentali nel canottaggio, ma servono a poco nella vela. Mi aggregai al gruppo nel 1991 dopo i mondiali di canottaggio.
Ma in generale che si diceva della tua scelta?
Capirono in pochi la mia decisione. Mi diedero del pazzo perché stavo lasciando una medaglia certa per qualcosa che sfuggiva ai più. Nell’ambiente velico Gardini e Cayard erano nomi importanti ma fuori in pochi capivano cosa stava succedendo. Fui anche accusato di aver fatto quella scelta per soldi ma in realtà era il contrario. In quegli anni nel mondo del canottaggio ero davvero ben considerato.
E il ritorno al canottaggio? Come si vince un oro olimpico ricominciando da zero?
Fu durissima. Quando capii che potevo giocarmi le mie chance per Atlanta entrai in una sorta di ritiro permanente. Durò tutta l’estate del 95. Dovevo convertire nuovamente le masse muscolari del mio corpo.
Ne è valsa la pena?
Decisamente sì. Non volevo tornare e basta. Volevo tornare e vincere l’oro, non lo avevo mai nascosto e con Agostino (Abbagnale ndr) non abbiamo sbagliato. Io e lui insieme non abbiamo mai perso una regata. Mai. Nemmeno per sbaglio.
Tra l’altro, la finale di Atlanta fu una gara perfetta con una delle telecronache più belle della storia dello sport italiano con Galeazzi… cito: “e l’Italia va a vincere ancora una volta, non è finita mai Seul…”
Una gara tatticamente e tecnicamente perfetta che viene studiata ancora oggi. Ma ti dirò una chicca: non studiano solo noi, nel canottaggio Galeazzi è il benchmark per chi vuole commentare la disciplina?
Tornando alla vela. Al Moro di Venezia va riconosciuta la forza di aver fatto diventare popolare uno sport che ancora non lo era. Avevate la percezione che l’Italia si stava innamorando di voi?
Mentre gareggiavamo con New Zealand ci rendemmo conto era nata una Moro-Mania: arrivavano i disegni dei bambini, le lettere dei fan e sapevamo che nonostante il fuso orario si faceva nottata per vedere le gare.
Se chiudi gli occhi e pensi alla Coppa America qual è il primo ricordo hai?
Paul Cayard. Siamo nel suo ufficio dove due volte a settimana faceva dei colloqui one to one. Mi chiama e mi chiede una mano.
Una mano per cosa?
Voleva che lo aiutassi a far capire all’equipaggio che eravamo prima di tutto degli atleti e poi dei velisti. Negli anni 80-90 il velista non era percepito come un atleta al 100% e noi avevamo invece impostato tutto in quella direzione.
Come l’hai risolta?
Dando appuntamento a tutto l’equipaggio ogni mattina alle 6:45. Correvamo 8km. Paul mi chiese di essere cattivo, di caricarli e tutti la presero seriamente. Dopo un paio di mesi eravamo allenatissimi e ogni mattina era una guerra (ride ndr).
Ci ho preso gusto non ti lascio più andare via. Un altro ricordo?
Quando sceglievamo la formazione che doveva scendere in acqua. Decidevamo collettivamente. Ci mettevamo attorno al tavolo e ognuno scriveva il suo equipaggio migliore. Poi si aprivano i fogli anonimi e si faceva una classifica. Chi prendeva più voti andava. Ti garantisco che è sempre sceso in acqua l’equipaggio migliore.
Un’ultima domanda. La sensazione è che se Gardini non si fosse tolto la vita nel 1993 durante lo scandalo Mani Pulite il progetto “Moro” avrebbe potuto dare ancora tanto. Ci hai mai pensato?
Ti rispondo così: Se oggi ci fosse la possibilità di ricostruire un team sull’impronta di quello che fu il Moro non esiterei un istante e aderirei. Se Gardini non si fosse tolto la vita in seguito alle vicissitudini in cui era piombato avremmo potuto dire e dare molto, ma molto di più.