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Ma quanto è bella
la 500 Miglia di Indianapolis?

  • di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

24 agosto 2020

Ma quanto è bella la 500 Miglia di Indianapolis?
Da sempre (ingiustamente) poco seguita nel nostro paese la Indy500 è il ritratto complesso di un'America lontana e l’immagine romanzata di uno sport mitologico. Ecco perché ci piace così tanto

di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

Chi vince a Indianapolis non beve champagne. Chi vince l'irraggiungibile 500 Miglia di Indianapolis fa il bagno nel latte. È una tradizione che sopravvive nello speedway americano dal 1936: il vincitore della Indy entra nella Victory Lane, indossa il cappellino dello sponsor, beve una bottiglia di latte. 

E in questa ritualità c'è già tutta la bellezza dell'America. Le tradizioni da rispettare, la Victory Lane che segna un luogo in cui solo chi vince è destinato a entrare, l'importanza del marketing con gli sponsor così visibili, così presenti e protagonisti, e l'unicità di quella bottiglia di latte. 

Il latte burroso, solo e soltando americano, quello che nei film bevono direttamente dalle taniche da cinque litri. Quel latte che è diventato icona, insieme a tutto ciò che gira intorno alla gara più pazza del mondo. La tradizione del latte è così importante che a ogni pilota presente in pista viene chiesto quale tipo di latte vorrebbe bere al suo arrivo, in caso di vittoria, e vengono così prodotte serie limitate con il numero e il nome dei protagonisti della gara. 

Un'esagerazione? Certamente. Ma anche il ritratto di una gara che va ben oltre l'aspetto della competizione e - negli anni - entrata nell'immaginario comune di ogni cittadino americano. 

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Takuma Sato, vincitore di due 500 Miglia di Indianapolis: nel 2017 e nel 2020

Se sei americano non ti deve per forza piacere il motorsport ma devi per forza guardare la Indy. Un po' come quando gioca l'Italia ai Mondiali e tutti diventiamo improvvisamente appassionati di calcio. Non è il calcio, non è il motorsport: è storia, tradizione, patriottismo, spettacolo. 

Ed è per questo che a Indianapolis le ritualità hanno un aspetto così importante. Proprio negli Stati Uniti, dove il rispetto delle tradizioni viaggia di pari passo con una spiccata attenzione alla superstizione, il simbolico richiamo alla storia che accompagna la gara è quasi più importante della competizione stessa. Al grido di "Ladies and Gentlemen, start your engines!" tutto inizia e sotto una pioggia li latte tutto finisce. Ogni anno, sempre nello stesso modo. 

Ma nonostante questa attenzione alla ritualità la Indy500 si rinnova, cambia e continua ad appassionare. E anche se l'edizione appena conclusa è andata in scena senza pubblico - che a un evento sportivo americano come questo è parte integrante dello spettacolo - non è mancato proprio niente. 

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Gli incidenti spaventosi, le velocità folli, la forma di quello speedway che è sempre uguale ma che sembra sempre diverso, i protagonisti inaspettati, le possibilità infinite e poi, alla fine, solo un vincitore destinato a entrare nella Victory Lane. 

E nonostante Fernando Alonso - uno dei motivi per cui sempre più europei hanno iniziato a guardare la Indy - non abbia vinto e non sia mai entrato veramente in gara dopo una brutta qualifica e una performance sempre nelle retrovia; a Indianapolis hanno vinto le belle storie. Quella del trionfatore, il quarantatreenne giapponese Takuma Sato. Ma anche quella di tutti i rookie in pista, dei veterani dell'Indiana, di un Alonso che ha concluso la sua prima 500 prendendo le misure con una gara che sarà fondamentale nei suoi prossimi anni e della Indy stessa che - in questo 2020 complicato - non ha rinunciato a correre. Mantenendosi viva. Mantenendo la tradizione. 

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