Tony Cairoli ha deciso di dire basta: il 9 volte campione del mondo di Motocross a fine stagione si ritirerà, perché vuole farlo quando è ancora al top. Ma non è detto che un ultimo titolo non possa ancora arrivare. Dopo Valentino Rossi, si ritira dunque un’altra leggenda delle due ruote, il campione Tony Cairoli, lui che ha sempre ritenuto la MotoGP noiosa preferendole il Motocross.
Il viaggio di Antonio è cominciato tanto tempo fa, dalla Sicilia, in cerca di una svolta, e quella svolta è arrivata eccome, diventando un mito nel suo campo, tanto più se si considera che fino ad allora, i grandi campioni solitamente provenivano dal Belgio. Chissà se ora rilascerà più interviste, lui che non le ha mai particolarmente amate senza però sottrarsene per amore dei suoi fan. Per l’occasione, dunque, ripubblichiamo l’intervista tratta dal libro “Motorcycle Rockstar” che il campione rilasciò nel novembre 2011.
Si tocca il pizzetto. Apre e chiude la bocca con movimenti decisi, a scatti. Parla per necessità, Tony Cairoli. Parla per buona educazione. L’impressione è che vorrebbe essere da un’altra parte a fare altro: «Non mi piacciono le interviste. Però mi piace tenere un buon rapporto con i fan e se lo devo fare attraverso le riviste ben venga».
La sua dimensione è correre in moto. Moto da cross. Velocità, fango e gloria, come recita il tatuaggio sulla schiena. Durante un cambio d’abiti per il servizio fotografico ha mostrato anche gli altri: il suo 222 in numeri romani sul braccio destro e il motto Ride to win su un fianco. Una scritta a cui ha tenuto fede vincendo, nel 2011, il quinto mondiale. Tre in MX1 e due in MX2. Adesso è arrivato a otto. Roba da fenomeni, soprattutto se non sei nato in Belgio, il Paese che ha sfornato i più grandi del motocross. Sul set si presenta con un cappellino con la visiera rigida, un giubbotto smanicato col cappuccio, una magliettina con lo scollo a V, jeans a vita bassa e sneaker senza lacci. Trasporta un trolley con l’adesivo Redbull, lo sponsor del team De Carli. La mano sinistra è coperta da un tutore per la microfrattura dello scafoide, per fortuna composta. Assieme a lui gli addetti stampa del team e il suo manager. E, ovviamente, Jill Cox, la bionda fidanzata olandese, fashion victim e con lo smalto viola. Troppa folla e, tra una foto e l’altra, Tony preferisce il silenzio. Ogni tanto distoglie lo sguardo dall’iPhone e Jill domanda: «Okay?». Lui abbozza un sorriso e replica: «Okay». Rassicurandola con una carezza e un rapido bacio. Segno di timidezza cronica. Entrare in contatto con la sua parte più profonda è impresa difficilissima. Quella rimane ben protetta, retaggio di un passato da emigrante. Nonostante la nave l’abbia presa solo metaforicamente. Per un viaggio che da Patti, Sicilia del nord, lo ha portato alla conquista di un mondo fatto di spallate e ruote tassellate. Di velocità, fango e gloria, appunto. Di luoghi comuni da abbattere, salti, cadute e trionfi su sabbia.
Durante la chiacchierata la sua voce non cambia mai di tono. Nemmeno quando, con un filo di commozione, parla di una vicenda personale impossibile da mandar giù: la scomparsa della madre, avvenuta due mesi fa. Partiamo dall’inizio, da Patti. «Sono nato in un paese dove nessuno praticava sport agonistico. Solo due o tre ragazzi andavano in motocross, ma erano visti quasi come delinquenti. Mio cugino era tra questi. Mio padre mi regalò un Italjet 50. Dai quattro ai dieci anni non mi ricordo un giorno che non sia salito su quella moto».
Hai fama di tipo chiuso e riservato.
«Forse sì. Alle prime gare del campionato italiano c’erano dei ragazzi del Nord che senza dirmi qualcosa in particolare, mi facevano percepire l’esclusione: mi tenevano fuori, giocavano per conto loro. Però ero uno dei pochi che riusciva a bastonarli anche se loro avevano già molti sponsor e mezzi più curati dei miei. Per me era già una soddisfazione».
Usavi il motocross per affrancarti.
«Mi vendicavo sul campo».
Essere vincente aiuta a integrarsi?
«Per me non era una discrimante. Per gli altri evidentemente sì. Dopo le prime vittorie molti di quelli che mi escludevano volevano diventare miei amici. Ho imparato a distinguere i sinceri dagli ipocriti».
Che cosa ti piace della cosiddetta sicilianità?
«La solarità delle persone, l’ospitalità».
La Sicilia, purtroppo, per molti è ancora sinonimo di mafia.
«Io non l’ho mai vissuta, non ho mai assistito a episodi strani. So che esiste, ma non solamente in Sicilia, si è globalizzata, diciamo».
Ti dà fastidio questo accostamento? Per molti, lo scrittore Roberto Saviano, quando parla della camorra, fa una cattiva pubblicità alla sua terra. Insomma, è giusto parlarne?
«Non so chi sia Saviano, non seguo queste vicende. Ovviamente la mafia non è una bella cosa, ma nel motocross non ci sono soldi, nessuno mai mi è venuto a cercare. Ci sarebbe poco da prendere».
E oramai in Sicilia tu hai solo le radici, no?
«Sono un po’ uno zingaro: sempre in giro, in Sicilia ci sto poco. Primo, perché non ci sono strutture adeguate per allenarsi. Secondo, perché non ci sono piloti all’altezza con cui confrontarsi. Ora passo cinque mesi all’anno in Belgio, il resto a Roma dove il mio team possiede una pista privata e posso allenarmi quando mi pare».
Trasferirti è stato un trauma?
«La prima volta, sì. Da Patti a Cormano, in provincia di Milano. Traffico, casino. Però in Lombardia c’erano più circuiti. Poi mi sono abituato. Dal 2004 vivo in Belgio».
La cosa che ti ha colpito di più?
«La pulizia. E l’organizzazione».
Appena arrivato, come comunicavi?
«In Inglese. Dal 2004 al 2008 ho avuto la fortuna di impararlo, poi mi sono fidanzato con Jill e continuo a migliorarlo. Adesso mi dà gusto».
Così, girando l’Europa, sei cambiato.
«Mi sono aperto. Ho capito cose che se fossi rimasto tutta la vita in Sicilia avrei faticato a comprendere. Grazie anche al pilota olandese Marc De Reuver. Un giullare, un casinista. In Belgio con lui mi sono divertito, mi ha dato un sacco di consigli».
Sei cambiato anche come pilota?
«Certo. All’inizio ero irruente. Ora ho più malizia. Prima l’obiettivo era la singola vittoria, adesso penso al campionato. Sono diventato un calcolatore, studio gli avversari. So prima di loro ciò che pensano e vogliono fare».
La gara che rivivresti?
«La prima vinta, nel 2004 in Belgio. Tre giorni dopo ancora stentavo a crederci».
Hai vinto un campionato di cilindrata 450 guidando una 350 cc. Hai destato scalpore.
«Era una scommessa e a me le scommesse piacciono. Mi danno le motivazioni per vincere. Ho preferito la maneggevolezza alla potenza. Per il prossimo anno non so. Aspetto di provare la nuova 450 per decidere».
Di te si è sempre detto: forte ma senza il physique du rôle per diventare un personaggio universale. Che cosa rispondi?
«È una voce che non è mai arrivata alle mie orecchie. Non mi sono mai posto il problema».
Dicono che tu ti sia rifatto i denti. È vero?
«Se me lo dicono in faccia rispondo. Comunque, se lo vuoi sapere, i denti non me li sono rifatti. L’apparecchio non me lo sarei potuto nemmeno mettere perché mi avrebbe sconvolto l’equilibrio. E poi sotto li ho tuttora storti. Sopra si sono messi a posto col tempo, da soli. Non ho mai portato nemmeno un bite».
Quindi, la dentatura difettosa non ha mai rappresentato un problema.
«Mai. Guarda le foto: rido sempre. Critiche e falsità non mi danno fastidio, anzi mi caricano».
Hai sempre avuto gli stessi sponsor e hai sempre fatto parte del team De Carli, prima in Yamaha poi in KTM.
«Mi affeziono alle persone e stabilisco un rapporto familiare. La mia, più che fedeltà, è riconoscenza per chi mi ha aiutato quando non ero nessuno. Claudio De Carli è un secondo padre. Una grande persona, che mi ha insegnato tantissimo, soprattutto quando stavo crescendo ed ero agli inizi, nel 2004 e nel 2005. Anche se io non parlavo tanto, lui sapeva sempre che cosa mi passasse per la testa».
Non hai mai polemizzato, neppure quando ti ha vietato di correre in America, il tuo sogno.
«Lì mi sono proprio arrabbiato. Ci tenevo, mi sarebbe piaciuto fare qualche gara per misurarmi con i campioni che competono negli Stati Uniti. Ma lui ragiona a lungo termine. In America ci sono due tipi di campionati, quello outdoor e quello indoor. Per fare quest’ultimo, che è molto duro e ha bisogno di uno stile di guida diverso dal mio, mi sarei dovuto fermare e allenarmi per un anno intero. Ma a questi livelli è difficile fare una scelta del genere. Così ho messo da parte il progetto e ho firmato per altri due anni con KTM per correre il Mondiale (che si svolge principalmente in Europa, ndr)».
Ti dispiace?
«No, il cross in Europa è cresciuto moltissimo, e per confrontarsi con gli americani c’è sempre il Motocross delle nazioni».
Come ti piazzeresti nei campionati Usa?
«Nell’indoor sarei sempre fra i primi dieci. Nell’outdoor lotterei per la vittoria».
I maligni dicono che in realtà stai dominando un campionato di provincia, perché i veri avversari o hanno smesso o sono emigrati in America.
«Non sono d’accordo. Pulselle lo incontrerò la prossima stagione perché tornerà in MX1. Sarà il principale avversario. Ben Townley è emigrato nel 2005 e io ero ancora troppo giovane. Tyla Rattray l’ho sempre battuto».
Adesso anche i giovani della MX2 preferiscono andare direttamente negli Usa. E gli stessi maligni sostengono che Ken Roczen e Jeffery Herling, i nuovi giovanissimi volti del motocross, ti stanno rubando la scena. Oltretutto, questa stagione parecchie volte sono risultati più veloci di te. Come se Andrea Iannone della Moto2 andasse più veloce di Casey Stoner in MotoGP.
«Entrambi sono forti. E mi piacerebbe incontrarli. Quando ero in MX2 anch’io, spesso, facevo i tempi migliori dei piloti della MX1. Il motivo è tecnico: la MX2 molte volte corre su piste appena spianate. Le condizioni del terreno sono migliori. Poi, in MX1, se ti ritrovi dietro a uno che fa da tappo perdi la possibilità di fare buoni tempi perché poi subentra la fatica e sei stanco».
Ambizioni?
«Raggiungere i dieci mondiali di Stefan Everts. Ce la posso fare».
Cosa sono le cose che realmente contano nella vita?
«Famiglia, amore e salute».
Famiglia: hai da poco vissuto il lutto di tua madre. Come stai adesso?
«Meglio. È mancata per un cancro all’utero diagnosticato nel 2007. Una lotta costante. Molto dura. Si curava a Milano. Lo scorso inverno è stata piuttosto bene. La condizione è peggiorata velocemente nell’ultimo periodo. Ma già da metà campionato sapevo che sarebbe finita così. Anche quando la sentivo al telefono capivo che non avrebbe vissuto a lungo».
Quanto ha influito sulle tue prestazioni?
«Io riesco a separare bene il momento della gara da quelli del dopo gara. In gara non ci
pensavo, ma durante la settimana era difficile».
Qual è stato il momento più tosto?
«Quando ho saputo della malattia. Era già grave, l’hanno operata dopo due giorni. E quando se n’è andata. Una cosa terribile. Io ero lì. Non le tenevo la mano, ma le ero accanto. Assistere alla morte di una persona a cui vuoi un bene infinito è devastante. Riuscivo solo a pensare a quanto era stata premurosa: mi ha sempre sostenuto, mi chiedeva sempre se stavo bene, se mangiavo, se avevo bisogno di qualcosa. Che perdita, per lei prima venivamo io e le mie tre sorelle poi tutto il resto. Un esempio. Era simpatica, solare».
Il contrario caratteriale di tuo padre, non è vero?
«Lui è più timido. Abbastanza impulsivo. Ma anche lui mi è sempre stato vicino. Molto vicino, essendo io l’ultimo figlio e il primo maschio».
Hai pianto su quel letto?
«Sì. Da quando sono diventato grande forse è stata la prima volta. Io non piango quasi mai».
In cosa trovi conforto?
«Pensando che ora sta meglio. Gli ultimi mesi sono stati una sofferenza per lei».
Passiamo all’amore, a Jill. Siete inseparabili.
«È una ragazza straordinaria, oltre a essere bellissima, ha i piedi per terra, sa cosa vuole e mi ha sempre aiutato. Non si fa problemi a sporcarsi le mani, bagnarsi i capelli o mettere i piedi nel fango anche con le scarpe di marca. Abitiamo insieme in Belgio e probabilmente a breve ricomincerà a fare l’estetista».
Pensi al matrimonio?
«No, nemmeno ai figli. Vedremo più avanti. E, se arriveranno, mi piacerebbe avere prima una femmina come Jasmine, la mia nipotina. A tre anni e mezzo, dopo ogni gara che vinco, al telefono, canta l’inno di Mameli meglio di me. La chiama “la canzone di zio Tony”».
Che cosa ribatti a chi dice che Jill è troppo bella per te?
«Che è vero. Ma non le ho mai messo le manette, quindi se vuole andare via…».
Come l’hai conquistata?
«Lei bazzicava le corse perché anche suo fratello è un pilota. Io le scattavo foto con un grosso obiettivo, da lontano. Dopo un po’ di gare le ho mandato un poster con un collage dei suoi ritratti, anonimo. Alla fine non ce l’ho fatta e le ho detto che ero io l’ammiratore segreto».
Primo bacio?
«Alla quarta uscita, un mese dopo».
Lei è molto più chiacchierona di te. Racconta che sei un bravissimo cuoco.
«La mia specialità è la pasta alla carbonara».
Ricetta, prego.
«Soffriggo uno spicchio d’aglio con un filo d’olio, poi taglio lo speck a piccole strisce, non la pancetta già tagliata perché fa schifo. Faccio soffriggere, aggiungo pepe e parmigiano, poi mescolo tutto. È importante la cottura al dente della pasta. S’intende, le mezzemaniche».
Racconta pure che sei ordinatissimo.
«È vero».
Litigate?
«Poco e per lo stesso motivo. Gli olandesi amano fare programmi a lungo termine, io invece sono abituato a vivere giorno per giorno».
Sei bravo a letto?
«Normale».
Hai mai pagato una donna?
«Mi hanno offerto degli spogliarelli molti anni addietro. Niente di più».
Quando hai fatto l’amore per la prima volta?
«A 16 anni con una mia coetanea in Sicilia. Non eravamo fidanzati».
Quanto guadagni?
«Non si può dire».
Come sei messo con Facebook e Twitter?
«Ci vivo».
Film?
«Horror e fantascienza. Vampiri, robe così».
Alcol?
«Alle feste di fine campionato. Altrimenti, al massimo, il limoncello».
Sesso prima della gara?
«La sera prima sì. Prima prima no».
Che auto e che moto hai?
«Una Duke 690. E una BMW M6 da tre anni».
È vero che in Sicilia guidavi soltanto col foglio rosa, ma ti lasciavano andare perché eri già un idolo locale?
«No, mi hanno pure sequestrato il motorino un paio di volte. Ci andavamo in due ed era vietato a quei tempi».
Il nome di una con cui tradiresti Jill.
«Quella lì, come si chiama… Megan Fox».
Voti a destra o a sinistra?
«In mezzo».
Chi erano i tuoi miti?
«I due crossisti Alex Puzar e Jeremy McGrath»
Sbk o MotoGP?
«Sbk».
Se il motocross avesse la stessa copertura televisiva della MotoGP saresti un mito.
«Mi dà fastidio, perché faccio tantissimi sacrifici e molte volte mi gioco l’osso del collo, come tutti gli altri».
Tanta visibilità, stipendi alti, molti sponsor ma un ambiente poco genuino. Saresti disposto a fare cambio?
«Sì, ma non andrei mai in MotoGP. È una categoria noiosa».
T’incazzi ancora se ti chiamano «terrone»?
«M’incazzo sì. Molto. Io non mi comporto così coi polentoni, non vedo perché dovrebbero farlo loro con me».
Credi in Dio?
«Sì. Prego spesso. Recito il Padre Nostro prima di dormire e prima di partire, sotto il casco».
E prima di addormentarti qual è il tuo ultimo pensiero?
«Che mi manca mia mamma».