In un periodo storico di sospensione e sfiducia, l'epica si costruisce dentro le bolle dello sport. In quella di Parigi, due giorni fa, Rafael Nadal ha vinto il tredicesimo Roland Garros della carriera, raggiungendo il traguardo dei venti Slam che fino a quel momento aveva staccato il solo Roger Federer. Si è sbarazzato del numero uno al mondo Novak Djokovic in 2 ore e 41 minuti (6-0/ 6-2/ 7-5) con una perentorietà che ha impressionato tutti, anche lo stesso rivale: «Oggi hai dimostrato perché sei il re della terra», ha detto Nole a fine gara. Era il 2005 quando il tennista maiorchino alzava per la prima volta il trofeo. Da quel momento, vederlo festeggiare al centro del Philippe Chatrier è diventato una sorta di ricorrenza annuale, come l'Epifania o la festa della Liberazione. Solo in tre occasioni ha mancato l'obiettivo, una delle quali a causa di un infortunio. Un'egemonia tradotta perfettamente dalla brutalità di una statistica che recita 100 vittorie e 2 sconfitte. Questa volta però, il sorriso consapevole a cui si è lasciato andare dopo essersi inginocchiato festante su quel campo di cui conosce ogni singolo granello di laterizio, aveva un sapore diverso dagli altri.
Poche ore più tardi, a migliaia di chilometri di distanza, nella bolla di Orlando, LeBron James vinceva gara 6 delle Finals Nba contro i Miami Heat e conquistava il quarto anello della carriera con i suoi Los Angeles Lakers, a digiuno di successi da dieci anni esatti. Con una tripla doppia da 28 punti, 14 rimbalzi e 10 assist ha preso per mano i suoi compagni – che non sono stati lì a guardarlo ma al contrario hanno offerto un prezioso contributo alla causa -, e li ha condotti fino al titolo. Per James al termine della gara è arrivato anche il premio di MVP delle finali, il quarto vinto con tre franchigie diverse, come a nessuno nella storia era mai riuscito. Riportare Los Angeles sul tetto del mondo è l'ennesima promessa a cui LeBron ha tenuto fede, l'ennesima missione di cui si è fatto carico e che ha portato a termine, l'ennesimo, e forse più significativo tentativo di consacrare la sua stella come la più splendente della storia del gioco.
Per Rafa Nadal e LeBron James si tratta di due successi speciali, dall'enorme valore simbolico. Due successi in qualche modo simili, che per come sono arrivati non solo rifiniscono una volta più la loro iconografia di leggende dello sport, ma scuotono, come forse mai in precedenza, il tavolo del dibattito sul più grande di sempre nei rispettivi campi. A suggerirlo non è solo la portata delle loro imprese (ottenute in condizioni eccezionali di clima, atmosfera, restrizioni: «Probabilmente è stata la cosa più impegnativa che ho mai fatto da professionista», ha detto LeBron), ma anche le loro reazioni al momento di celebrarle. Nelle espressioni di entrambi si stagliava nitida un'aria di compiacimento che andava oltre le comuni emozioni quali gioia, soddisfazione e commozione che hanno sempre accompagnato le loro vittorie. Rifletteva l'orgoglio di chi intimamente sapeva di aver raggiunto una vetta forse mai esplorata - almeno secondo il giudizio di alcuni; di chi aveva davvero compiuto un passo decisivo verso qualcosa di intangibile. Una sensazione che ha trovato eco nelle risposte che entrambi hanno offerto nelle interviste post-partita, con LeBron che diceva fiero «I want my damn respect too», e Nadal che più modestamente, come nel suo stile, ammetteva che sì, a questo punto deve essere considerato tra i due migliori tennisti della storia. Per il quotidiano Marca, che il giorno seguente ha sostituito il nome della testata con “Rafa”, il dubbio non ha più senso esistere: «Sei il più grande che vedremo mai».
Per quanto mettere insieme la parabola di due atleti che praticano sport diversi – per di più uno collettivo e l'altro individuale - sia sempre un terreno scivoloso, appare evidente come il percorso di Nadal e James sia ricco di analogie e tratti comuni. La carriera di entrambi è stata – e forse continua a essere – una lotta per il riconoscimento trasversale. Un romanzo di affermazione, più che di formazione, in cui i due protagonisti hanno affrontato sfide sempre più dure per affrancarsi dallo stato di subalternità a cui sembra(va)no inesorabilmente destinati. Quello all'ombra di Roger Federer e Michael Jordan. Non importa quanti record abbiano infranto, quanti trofei abbiano alzato, quanto siano riusciti a porsi nuovi limiti e superarli: la distanza da quei due rimaneva invariata. Una logorante corsa sul tapis roulant, in cui puoi aumentare intensità e velocità quanto ti pare, ma sempre lì, nello stesso punto rimani. Due re che sembrano non avere mai diritto di sedersi sul trono.
Per entrambi, l'origine di questa dolorosa stanzialità sembra avere a che fare soprattutto con il prototipo di sportivo che incarnano. Quello che mette al centro il corpo, il dominio della forza, e che nel secondo millennio ha avvicinato sempre più l'uomo alla macchina. Super-atleti dotati di una struttura così potente da conferire al loro talento una forma artificiale. In alcuni casi, addirittura, a soggiogarlo. Per anni si è dato a Nadal del pallettaro urlante, incapace di “gesti bianchi”; così come di LeBron si sosteneva fosse devastante solo quando poteva sfruttare il suo fisico, che fosse in post o in penetrazione. Insomma sportivi eccellenti ma tetragoni, privi di quell'eleganza e di quell'aura per certi versi ieratica che deve emanare una vera divinità dello sport. Un afflato “celestiale” che invece connota da sempre le figure di Michael Jordan e Roger Federer.
Eppure sotto quell'armatura così granitica nessuno ha mai potuto negare che ci fossero due campioni epocali. James e Nadal si sono nutriti dei pregiudizi di “gusto” e li hanno usati come benzina per migliorarsi, come stimolo per porsi sempre nuovi obiettivi. Consapevoli di non poter acquisire la classe stilistica richiesta, hanno alimentato il proprio mito attraverso un profondo e appassionato studio del gioco, che negli anni ha contribuito a portarli sempre più in alto. I successi di due giorni fa sono stati per entrambi uno straordinario manifesto di intelligenza tattica, di solidità mentale e di dominio tecnico sul contesto in cui si trovavano ad agire. Ma non si sono limitati a questo, né a sollevare gli ennesimi trofei. A 34 e 35 anni, Rafa e LeBron hanno sconfessato ogni sciocca previsione di chi, tempo fa, metteva fortemente in dubbio la longevità di due atleti che puntando molto sul fisico avrebbero finito per spremerlo velocemente.
È per tutte queste ragioni che oggi, nella tanto esplorata discussione sul GOAT i due sentono di aver guadagnato finalmente terreno. «Vedremo cosa farà Novak, cosa farà Roger, cosa farò io. Quando avremo concluso le nostre carriere ci sarà tempo per analizzare tutto ed emettere un verdetto chiaro», ha detto Nadal; «Lascio a voi la discussione», ha dichiarato un più laconico James, entrambi con un sorriso sardonico. Di certo non sono mai stati così vicini a sedersi su quel dannato scranno, sempre che sia davvero così importante.