Tra i tanti commenti letti qua e là subito dopo la vittoria di ieri mi ha colpito un tweet che dice molto del rapporto tra Rafael Nadal e la terra rossa del Roland Garros: possono cambiare le date e le condizioni climatiche, possono togliere il tifo del pubblico, possono perfino chiudere il tetto rendendo di fatto la finale un match indoor, possono cambiare le palline che tanto lo avevano fatto arrabbiare durante i primi turni, ma una sola cosa non si può cambiare: il vincitore.
Nel giorno in cui Hamilton ha raggiunto il numero di successi di Michael Schumacher e i Los Angeles Lakers hanno pareggiato i titoli dei Boston Celtics, il tennista spagnolo ha voluto ribadire ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, che il suo nome va ricompreso tra i più grandi sportivi di ogni epoca, e non solo all’interno dell’universo del tennis. E noi, fortunati a poter godere delle sue imprese.
Lo ha scritto perfino Aldo Cazzullo sul Corsera, lo abbiamo iniziato a pensare un po’ tutti vedendolo vincere titolo dopo titolo, anno dopo anno, passando dalla terra rossa al cemento e all’erba: Rafael Nadal va considerato uno dei più grandi di tutti i tempi se non altro per il modo in cui rifiuta la sconfitta e per la sua fame incessante di vittorie. Se già raggiungere quota 10 titoli a Parigi era da ritenersi un traguardo inimmaginabile, visto il bottino di Borg fermo a 6 successi, lo stesso può dirsi di quello di 20 tornei del Grande Slam (13 Roland Garros + 4 US Open + 2 Wimbledon + 1 Australian Open), un privilegio che da ieri pomeriggio Nadal condivide con l’eterno rivale e amico Roger Federer (che ieri, post successo, gli ha dedicato un bellissimo post), Serena Williams e Steffi Graf, e che probabilmente riuscirà a perfezionare ancora.
Anche perché a 34 anni già compiuti Rafael Nadal è sembrato in palla più che mai, capace di dominare il numero 1 del mondo ancora imbattuto nel 2020 Novak Djokovic al quale ha concesso appena 7 games complessivi nel 6-0 6-2 7-5 finale, un punteggio che inevitabilmente passerà alla storia per la sua ‘cattiveria’. Ecco, se forse c’è qualcosa che ci ha sorpreso davvero della finale è stato proprio il modo in cui il maiorchino è riuscito a sovrastare il serbo sul piano della concentrazione, delle soluzioni e della varietà del gioco, della prontezza e della freschezza atletica, mostrandosi spietato e implacabile su ogni palla, a tutti gli effetti ingiocabile. D’altronde i numeri non mentono mai, a riprova di quanto appena sottolineato: Nadal non ha perso nemmeno un set in tutto il torneo, anche grazie ad un calendario parzialmente benevolo (in ordine sono caduti Gerasimov, McDonald, Travaglia, Korda, Sinner e Schwartzman prima di Djokovic) e può vantare di essere il primo tennista della storia ad aver vinto 100 match a Parigi, con appena due sconfitte. Sì, avete capito bene, solo 2 in 16 apparizioni.
Eppure, questa volta c’era chi non considerava lo spagnolo il favorito numero uno del torneo: la lunga assenza dai campi, lo stato fisico tutto da valutare, la recente sconfitta di Roma proprio contro Schwartzman e la presenza di Djokovic e Thiem da fronteggiare rendevano il percorso di Nadal tutto da verificare. E qui sta la grandezza del campione che fa sembrare tutto normale, che aveva messo nel mirino l’ennesimo trionfo e ha tremato solamente nel corso dei primi due set nei quarti di finale contro il nostro Sinner (a proposito, che peccato!), rendendo gli altri match dei semplici allenamenti funzionali per trovare la condizione perfetta, proprio in finale. E mentre tutti si chiedono se è davvero il caso di intitolargli direttamente il torneo, visto quanto feeling reciproca si è creato da quando si presentò appena diciannovenne in pinocchietti bianchi e smanicato verde per aprire la tradizione vincente, Rafa probabilmente salterà le Finals di fine anno, e non chiuderà l’anno in prima posizione. Ma poco importa, tra 224 giorni sarà già tempo di provare a vincere un altro Roland Garros.