Quarantacinque minuti di tram dividevano la scuola privata francese frequentata dal dodicenne austriaco Toto Wolff dalla casa in cui viveva, a Vienna. Zaino in spalla, ogni giorno, e via, a vivere la realtà di un ambiente elitario di cui però, Toto e la sorella minore, non facevano davvero parte.
La madre, dottoressa austriaca, voleva che i bambini conoscessero le lingue, che avessero un'occasione in più rispetto a quelle che una scuola pubblica viennese avrebbe potuto dar loro. Le correnti della vita però, prendono vie difficili da comprendere e prevedere, impossibili da contrastare: il padre di Toto si ammalò a soli 30 anni di tumore al cervello, lottando contro la malattia per i successivi 10 e arrendendosi poi al cancro a 40 anni, lasciando due figli adolescenti e una moglie sola.
Il successo, il riscatto, sono "arrivati con il dolore", ha raccontato Wolff, oggi il team principal di Formula 1 più vincente della storia di questo sport. Un dolore che gli ha permesso di nuotare in mare aperto contro l'acqua, il vento e le onde, contro tutto e tutti, fin da giovanissimo. Per sconfiggere, prima di ogni altra cosa, l'umiliazione. Un sentimento che si è radicato in profondità dentro il cuore di quel dodicenne e che ancora oggi non lo abbandona.
Era pomeriggio, nella scuola francese di Vienna, quando qualcuno bussò alla porta della classe di Toto. La segretaria del preside gli chiese di seguirla e lo accompagnò al piano di sotto, fino alla porta dell'ufficio del preside. Seduta, accanto a una sedia vuota, c'era già sua sorella minore, di soli otto anni. "Le vostre rette della scuola non vengono pagate da molto tempo - si sentirono dire - dovete andare in classe, prendere le vostre cose, e tornare a casa". I suoi compagni di classe erano tutti un po' gelosi: lui poteva andarsene liberamente da quella prigione privata mentre loro erano costretti a starsene lì, seduti ai loro banchi.
Ma l'umiliazione di quel momento, la mortificazione di dover raccogliere i suoi libri e uscire dalla classe, non lascerà mai quel bambino. Ancora oggi, all'alba del suo 50esimo compleanno, si sveglia nel sonno, spaventato dall'idea di restare solo.
Lo racconta lui, Toto Wolff. Il Toto Wolff che siamo abituati a vedere saldo al comando, tutto d’un pezzo, vincente e carismatico. Immaginare quest’uomo come quel bambino umiliato non è facile perché esce dal personaggio che abbiamo immaginato per lui.
Lo racconta perché non si vergogna di un passato che lo ha reso l’uomo che è e che, ancora adolescente, gli ha insegnato la lezione più grande di tutta la sua vita: se vuoi cambiare la tua situazione, se vuoi qualcosa di più da te stesso, per te e per gli altri, allora devi lavorare per ottenerlo.
Che si tratti della finanza, primo campo esplorato e conquistato dall’austriaco quando fondò a soli 26 anni la propria società di investimento, o del motorsport, poco importa. Ciò che è stato davvero fondamentale per lui è sempre stata la visione dell’uomo che dentro di sé sapeva di poter diventare. Non le aspettative altrui, ma solo le proprie.
“A volte vedono che hai successo e pensano che ci sia solo quello in te, ma vorresti mostrare le cicatrici che hai. Quelle che non se ne vanno mai”. Cicatrici di umiliazione sepolta dentro, portata sulle spalle come i libri raccolti in fretta in quel pomeriggio a Vienna. Ferite che sono diventate il simbolo di un successo personale, più che pubblico. E di un uomo che ha saputo far cambiare la corrente del vento della propria vita.