Fiducia è sinonimo di sport per Xavier Jacobelli, direttore di Tuttosport insignito del collare d’oro Coni per la sua dedizione sportiva. La sua vale tutta una vita giornalistica, dal primo, imperativo consiglio ricevuto da Indro Montanelli - «scrivi come mangi!» - all’incontro con Nelson Mandela nel 1993 al seguito del Milan, in finale con gli Orlando Pirates. Ma fiducia significa anche guardare oltre lo scandalo, e il riferimento va alla triste vicenda di Alex Schwazer, assolto per doping ma penalizzato da un mondo sportivo che Jacobelli non esitò a biasimare per l’assenza di garantismo. Pensieri tradotti in parole che possono scaturire solo dalla mente di chi trova nelle vite dello sport italiano feritoie che guardano al mondo reale, dove mai nulla è pura luce, ma spesso un intreccio di ombre. Per questo, Jacobelli in occasione del Salone del Libro chiede di puntare alla letteratura sportiva, l’unico argine a una narrazione che diventa uno stortytelling spesso dettato da sole regole di mercato e marketing.
Direttore, oggi lo sport è ancora calcio-centrico?
Direi di no. Ci siamo appena lasciati alle spalle l’avventura delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi, chiudendo con Colbrelli che vince la Parigi-Roubaix. Sarebbe sciocco non ammettere che il nostro è un Paese dove il calcio è uno sport seguitissimo. Ma dipende dalle scelte editoriali. Basta guardare all’effetto Olimpiadi/Paralimpiadi: grazie a queste iniziative c’è stato un cambiamento di qualità nella considerazione degli atleti, soprattutto paralimpici. Pochi giorni fa, ricevendo il collare d’oro, ho visto sul palco Moser, Saronni, Argentin, Bugno, Basso: i racconti di questi straordinari personaggi del ciclismo ti fanno capire perché questo è tra gli sport più amati dagli italiani, e non c’è solo il calcio.
Tuttosport punta da tempo sulla letteratura sportiva. Oggi non si rischia l’assenza delle nostre firme più belle, perché la narrazione viene fatta dagli stessi sportivi sui social?
Nella narrativa sportiva, è vero che il ruolo di intermediazione che il giornale e la radio hanno avuto in passato nei confronti dei lettori che volevano sapere del campione o della campionessa. Tutto questo rapporto è saltato con Instagram – il signor Ronaldo ha mezzo miliardo di follower. Ma credo ancora di più nel ruolo della narrativa sportiva. Se ripenso a quando 15 anni fa misi piede sul web come direttore di Quotidiano.net, sembra Mesozoico senza i social. Oggi la rivoluzione è permanente e la vitalità della narrativa sportiva italiana resta qualcosa di straordinario.
Eppure, non c’è il rischio che oggi il racconto tecnico lasci spazio al gossip?
È tutta una questione di qualità. Non mi piace un’informazione gossippara, che se parla di Serena Williams racconte del numero di scarpe che porta o della sua linea di abbigliamento. Purtroppo c’è una tendenza a soffermarsi sui particolari che a volte sono irrilevanti. Ma qui è una questione di scelte. E poi, i giornalisti devono avere tantissima passione. Internet è un formidabile strumento di democrazia, ma poi dipende dall’uso che se ne fa: mi riferisco al propagare delle fake news, per esempio. Per questo, a chi desidera fare questo mestiere dico: cambiano gli strumenti ma quello che resta immutabile in questo mestiere anomalo, atipico, soprattutto se ti occupi di sport, è la passione. Tutto poi viene da sé: se non fossi andato al seguito del Milan nel 1993 in Sudafrica non avrei conosciuto Mandela. Bisogna insistere e resistere.