Bang Bang Baby. Qualcuno ricorda la serie evento uscita lo scorso aprile su Prime Video? Aveva il titolo piazzato in apertura della sciagurata disamina che stiamo per andare a fare, fiumi di inchiostro (digitale) scorsero per incoronarla regina della serialità italiana, "disruptive", bomba a mano destinata a disinnescare il mesto scenario delle proposte streaming nella nostra madre lingua e... poco più di sei mesi dopo, nessuno ne ha più memoria. "Thank you for being not so italian" non è solo una celeberrima citazione di Stanis La Rochelle in Boris, ma anche l'insidioso cliché in cui, prima o dopo, cascano la maggior parte delle produzioni di casa nostra che vogliono essere "qualcosa di più". Ultima nata in questa, per ora non nutritissima, cucciolata, ecco approdare, sempre su Prime Video, The Bad Guy. Con Luigi Lo Cascio e Claudia Pandolfi, il progetto tratta un tema curiosamente inevaso finora dalla fiction tricolore: la mafia. Lo fa bene, sporcandosi di dark humor, sparatorie, grottesco e altre amenità di genere pulp. L'impressione di déjà-vu, però, si fa sempre più prepotente di minuto in minuto e per quanto la storia si lasci godere anche con piacere, alla fin fine un po' di amaro lato cornee finisce per depositarlo: perché ci sentiamo chiamati a eccitarci visibilmente quando un prodotto italiano non ricorda in tutto e per tutto Un Medico in Famiglia? Di più, quando rassomiglia a qualche cult americano che sappiamo a memoria e che ha visto la luce almeno un decennio orsono? Battersi le mani da soli per esserci dimostrati in grado di tenere in mano una macchina da presa e produrre qualche scena d'azione incoraggiante è oltremodo avvilente. E, almeno da queste parti, un moto d'orgoglio monta prepotente sulla collottola gridandoci all'orecchio che no, non possiamo accontentarci di così poco.
The Bad Guy è una serie sicuramente ben recitata, con dialoghi interessanti e un ritmo piuttosto serrato. Basta dare una scorsa alle recensioni uscite fin qui, però, per capire cosa non funziona, proprio a monte dell'operazione. La critica si spertica a definirla "capolavoro" perché a - lunghi - tratti ricorda Breaking Bad (primo episodio 2008), addirittura Fargo (2014 la serie, 1996 il film). Come anche Face/Off con Travolta e Cage (leggendario scult d'azione del 1997). Tutto verissimo e, lo ribadiamo, qui sta la fragilità intrinseca dell'intera produzione. Possibile che per mettere in piedi un progetto "originale" qui da noi si possa solo emulare ciò che ha funzionato, anche decenni fa, oltreoceano? Se è vero che allora eravamo troppo impegnati a non perdere una puntata di Sentieri o, al massimo, Distretto di Polizia, oggi non siamo più nel Pleistocene e gli occhi degli spettatori, forgiati dal fuoco di mille Centovetrine, sono più sgamati di quanto i produttori sembrino, con ogni evidenza, ritenere.
Per quanto ci sia da lodare lo sforzo creativo di Prime Video che, se non altro, ci prova a raccontare storie italiane che non siano remake/reboot/dead action di titoli celebri (o scandinavi quando non coreani), purtroppo non basta. Anche perché qualche precedente illustre esiste pure: Lo chiamavano Jeeg Robot, piaccia o non piaccia, ha dimostrato in pieno quanto un film italiano potesse essere in grado di sostenere una trama supereroistica della durata di quasi due ore. Piovvero David di Donatello, mentre inizialmente la distribuzione del lungometraggio nelle sale era prevista per sette giorni e un colpo di tosse, come fosse un esperimento radioattivo e destinato al fallimento. Del resto, il regista Gabriele Mainetti aveva girato la bellezza di nove anni con quella sceneggiatura in testa (e in mano) bussando porta a porta alle case di produzione nostrane, come un testimone di Geova qualunque. Alla fine, per fortuna, qualcuno lo ascoltò. Anche se fidandosi pochino. Quanti film (e serie) tricolori, dopo Jeeg, hanno disperatamente cercato di ricalcarne l'allure? Impossibile tenerne il conto. Però di buono c'è che nessuno di questi progetti copia e incolla riuscì mai a riscuotere oltre qualche sbadiglio. Lo ribadiamo: il telespettatore, oggi, non lo rabbonisci più con Nonno Libero e qualche scazzottata. Grazie a Mefisto.
Per quanto ancora, poi, dovremo dirci "stupefatti" davanti a interpretazioni magistrali come quelle di Lo Cascio e Pandolfi? Essere in grado di recitare dovrebbe costituire, davvero, prerequisito base per andare in scena. Non qualcosa in grado di generare cori angelici di "Osanna eh". Anche perché giubilare per questo significherebbe, implicitamente, darci degli incompetenti su tutta la linea che, guarda un po', per una volta si sono dimostrati in grado di fare il compitino "come i grandi" (nel senso di "maggiorenni"). Un po' di orgoglio, un pizzico d'amor proprio, per cortesia.
Anche dal punto di vista seriale, si contano alcune zebre a pois nel panorama italiano. Su tutte, citiamo Anna, la miniserie tratta da un romanzo di Niccolò Ammaniti e da lui stesso creata per Sky. Passata pressoché in sordina dalle nostre parti, è stata contesa e acquisita all'estero con tutti gli onori. E a ragion veduta. A prescindere dai gusti individuali, si tratta di un progetto che trasuda vivacità creativa, dark ogni oltre immaginazione e, dulcis in fundo: non assomiglia a nient'altro che a se stesso. Ecco, è proprio questo che intendiamo come prima condizione da soddisfare per poter cominciare a parlare, in caso, di "capolavoro" senza farlo a vanvera o perché è trend. Il genio se ne fotte del trend, fa le cose a modo suo. Che poi si trasformino in fiaschi o grandi opere rivoluzionarie, poco conta. Un lavoro eccezionale, fuori dal campo minato dei fogli Excel, deve necessariamente nascere da un'idea che quando la racconti, ti si guarda storto. Perché non si era mai sentita una roba così. E questo è il punto.
The Bad Guy, sarà oramai chiaro, qui è solo un pretesto per aprire una riflessione più ampia e forse - parola orrenda! - "necessaria" in merito alla serialità italiana. Lasciando correre l'attitude paracula (e azzeccatissima) che la porta, per esempio, a piazzare Colapesce e Dimartino in apertura con un jingle così catchy-grottesco che non abbandonerà mai più le pareti della vostra corteccia cerebrale, il progetto vale. Anche solo perché la scena del Ponte sullo Stretto di Messina ha fatto infuriare Salvini su Twitter. Quindi non può che essere cosa buona e giusta. Resta comunque validissimo, però, il bisogno di volere qualcosa di più di un copia e incolla, pur fatto con sapienza e amore smodato, nonché riverente, per il cinema. Cantava Caparezza svariati anni fa: "Tutto ciò che c'è, c'è già". E, infatti, è lecito domandare ciò che, ancora, non c'è. Perché ne siamo in grado. Perché è arrivato davvero il tempo. Ad maiora.