Alessandro Baricco, nel suo testo pubblicato su Substack – e di libera circolazione – descrive Gaza come una “linea” di pensiero ancor più che geopolitica. Una “falda”: “C’è una falda, e noi ci abitiamo giusto sopra. Da una parte la terra emersa del Novecento, con i suoi valori, i suoi principi e la sua storia tragica. E dall’altra un continente, ancora spesso sommerso, che sta staccandosi dal Novecento, spinto della rivoluzione digitale, motivato dal disprezzo per gli orrori passati e diretto da un’intelligenza di tipo nuovo”. Questo Novecento che descrive Baricco è il Novecento teorizzato da Carl Schmitt nel suo “Le categorie del ‘politico’” (con quella monovirgoletta che, per chi conosce i codici, dice già tutto) che tutti dovrebbero leggere per avere un’idea dal fascismo che abita ogni democrazia, anche la più liberale. Perché non esiste “Stato” che non sia fondato sulla dicotomia “amico-nemico”. Non esiste “Stato” senza confine, senza difesa del confine, senza categoria del pensiero che non divida il “di qua” dal “di là”. Su quella “linea” si versa il sangue, degli esaltati guerrafondai e degli innocenti. Quella “linea” è il Novecento, dice Baricco: “Il catalogo di prodotti con cui il Novecento ha venduto se stesso per lungo tempo:il culto dei confini, la centralità delle armi e degli eserciti, la religione del nazionalismo”, ma anche “credere che la guerra sia una soluzione, e la sofferenza dei civili un prezzo accettabile con cui finanziare lo scontro tra le élites”. Vorrei andare oltre, perché i confini, le “linee”, le “falde” non nascono nel Novecento, ma hanno una data di nascita esatta: il 13 dicembre 1250, a Castel Fiorentino. Esse appaiono con la morte di Federico II e della sua idea di Impero.

Se posso muovere una critica – benevola – ad Alessandro è il suo uso della parola “imperialismo” in senso ‘moderno’, à la Toni Negri, per così dire. Mentre il “moderno” – e il suo imperialismo parvenu, da stato arrampicatore sociale – nascono con la morte dell’ “Impero”, l’ “unico”, quello federiciano. Dal momento della sua morte si disegnano sul pianeta, come crepe di un vetro che sta per andare in frantumi, i ‘confini’ come categorie dello spirito. Nascono queste imitazioni dell’Imperatore: i re, i sovrani, queste espressioni kitsch dell’unico vero potere: quello della mente. E così, i parvenu del potere – re, principi, aristocrazia cortigiana, puttane – figliano cancellieri, premier, parlamenti; tutti in lotta perenne fra loro ma d’accordo su un unico punto: le frontiere, i confini, la “comunità” - l’amico e il nemico. Oggi, quelle crepe scricchiolano, come un vetro, abbiamo detto, o come la superficie ghiacciata di un lago. Il momento della deflagrazione ha un nome: Apocalisse.

Non affiderei solo ai “giovani”, come fa Baricco, la responsabilità del punto di rottura. La libertà della gioventù, nelle democrazie, lo sappiamo, è una libertà “alimentare”: si possono permettere di nominare la realtà con le giuste parole perché non devono sopravvivere, hanno le famiglie alle spalle: i giovani, nelle dittature, sono ben più repellenti e delatori dei vecchi. Miei adorati vecchi, in fin di vita, mio adorato Alessandro: sono i vecchi il cui cervello non è stato terraformato dalla vita, i vecchi che lo hanno difeso come nocciolo della propria identità solitaria, che sono totalmente liberi di nominare le cose. Li vedo così i cavalieri dell’Apocalisse e gli Arcangeli Guerrieri: sciancati e canuti. Bellissimi. Sì, Ale, camminiano sulla falda, sentiamo lo scricchiolìo di quello che tu chiami Novecento e io ‘moderno’ (il postmoderno è una categoria per professori universitari che devono complicare la vita per renderla ‘pubblicabile’).
Ancora una ultima osservazione: la teologia. Siamo vecchi di ogni codice e sappiamo che la nostra amata metafisica si è dovuta nascondere sotto metafore e allegorie, per così dire, per bene: la musica, la grammatica, la matematica, la fisica teorica. Teologia, che termine scandaloso, oggi. Che termine fottutamente ‘religioso’. “Guardare freddamente Dio, caldamente lo fu già abbastanza. Buttato sul tavolo, Dio, sia nient’altro che il nostro strumento di lavoro” mi insegnò il mio Maestro. Non credi che la metafisica, o il suo nome esatto, Teologia, debba gettare via la maschera dei codici e presentarsi al mondo per quella che è? Non credi sia l’ora di dire: noi sappiamo Tutto; è inutile che vi attardiate a pensare, abbiamo già pensato tutto noi?
Con amicizia,
Ottavio
