I miliardari del mondo puntano allo spazio al di fuori dell’atmosfera terrestre, a conquistare Marte. La gente vuole qualcosa di diverso, con meno ambizioni scientifiche – e imprenditoriali – ma seguendo bisogni e principi molto più essenziali. L’abbiamo visto la settimana scorsa con gli scioperi e le manifestazioni che hanno bloccato l’Italia dopo l’attacco alla Global Sumud Flotilla e l’indignazione verso l’operato di Israele. Ormai sono rimasti pochi a negarlo: nella Striscia di Gaza è in corso un genocidio. Le persone per protesta si sono riprese le piazze, le autostrade, le stazioni ferroviarie, schierandosi in migliaia e milioni di fronte ai cordoni di Polizia e Carabinieri in tenuta antisommossa, nonostante i lacrimogeni e i manganelli sulle schiene delle prime linee dei manifestanti. Quelle persone lo hanno detto senza troppi giri di parole: le abbiamo pagate noi, le abbiamo costruite noi, noi ce le riprendiamo. Questione, anche questa, di spazi. Un concetto che vale al di là della geometria: lo spazio è politica. C’è un luogo in cui la natura politica dello spazio diventa evidente e problematica: la città. Lo è da sempre, da quando dalle campagne cominciò l’esodo verso i centri urbani, da quando le grandi fabbriche si presero le masse come forza lavoro. Nel Novecento il tema è stato preso in considerazione da molti intellettuali. Basti pensare a Walter Benjamin e alle sue riflessioni sui “passages” parigini, le gallerie coperte costruite nell’Ottocento: un ecosistema in cui la Storia si concretizza, con tutte le sue ferite e le contraddizioni. Ma anche a uno sguardo più ingenuo alcuni elementi sono facili da intuire: l’architettura dei palazzi, l’illuminazione delle strade e la loro pulizia, la presenza di parchi e scuole, gli abiti firmati delle persone, il colore della pelle dei passanti. Basta osservare bene le variazioni nelle diverse zone di una metropoli per ritrovare in esse le stratificazioni della società. In Italia la città in cui si esprime la massima tensione tra le forze sociali è Milano. La città per eccellenza, “l’unica vera città europea della penisola”. Il cuore economico finanziario del Paese, il nucleo della ricchezza e dunque, per contrapposizione, il luogo in cui le differenze diventano più esplicite. Di fronte ai ricchissimi la massa di poveri diventa più numerosa. La presenza di chi ha più degli altri rende più dolorosa l’esistenza di chi non ha nulla. Se poi il lusso diventa sfacciato si arriva al punto di rottura. Nelle proteste per il popolo palestinese, sottotraccia, pulsano anche queste energie compresse.

La Milano da bere è diventata la Milano del mattone. Un passaggio nemmeno così troppo brusco a ben guardare. Da anni è così. Tra le ultime tappe di questa metamorfosi c’è l’inchiesta sull’urbanistica della Procura di Milano, che aveva parlato di una “incontrollata espansione edilizia” condita da un presunto “patto corruttivo” tra amministrazione comunale e imprenditoria, tra Commissione paesaggio e alta società meneghina. Il Tribunale del Riesame ha pesantemente demolito le accuse rivolte all’architetto Alessandro Scandurra (Commissione paesaggio) e ad Andrea Bezzicheri di Bluestone per diversi progetti, dall'Hidden Garden al Pirellino. Le argomentazioni della Procura, per le magistrate Vincenza Papagno, Francesca Ghezzi e la presidente del collegio Paola Pendino, “non convincono”. Una vera morale di questa storia si avrà solo dopo il ricorso in Cassazione, ma la reazione alla notizia dell’apertura di un fascicolo è già di per sé indicativa. Si moltiplicarono in quei giorni le critiche al “modello Milano”. Attacchi non riconducibili solamente alle ipotesi investigative: è uno scontro culturale. La novità, a Milano, è come un rullo compressore, spiana ciò che ha davanti, non importa quanto profonde siano le sue radici. San Siro è stato venduto a Milan e Inter per 197 milioni. Il Meazza poi sarà abbattuto. Quei terreni ospiteranno un nuovo stadio, più bello e moderno, ma senza storia. Una decisione arrivata con il favore delle tenebre e una maggioranza di 24 a 20 in consiglio comunale. Beppe Sala ha detto che il prezzo è giusto, nessun trattamento di favore ai due club, il progetto sarà affidato a Lord Norman Foster e David Manica. Gli ultras dell’Inter hanno parlato sui social: “I ricordi non possono essere demoliti”. Le luci a San Siro si spegneranno, ormai la decisione è presa. Forse era necessario, una scelta sofferta ma inevitabile. C’è una Milano che procede spedita e un’altra che invece vuole restare ferma. Altro nodo sulla linea spaziotemporale milanese: lo sgombero del Leoncavallo. Chi era fuori dai cancelli del centro sociale occupato al numero 22 di quella strada ne parlava come se questo esistesse da sempre. Una presenza talmente sostanziale da diventare scontata. E quando ha smesso di esserlo la gente è scesa in strada per difenderlo. Ancora: c’è chi guarda lontano, all’innovazione e al futuro; altri, al contrario, si ostinano a muoversi a una velocità diversa, lentamente, tenendo conto di chi resta indietro.

Certo, un possibile inizio di tutto è l’ascesa di Silvio Berlusconi, la città che si espande, Milano 2. A ogni costo, letteralmente. Procediamo più avanti, perché le implicazioni politiche di quegli anni sono troppe per essere sintetizzate. È un periodo complesso e non possiamo permetterci semplificazioni maldestre. Un altro caso, però, è altrettanto denso di significato. Un altro punto sulla linea spaziotemporale che stiamo provando a tracciare. Il periodo, nei primi anni Duemila, dei “furbetti del quartierino”, gli immobiliaristi come Stefano Ricucci e Danilo Coppola. Una classe imprenditoriale giovane, spregiudicata, che in poco tempo arrivò ai vertici della società italiana. Uomini d'affari che avevano anche quote in alcune banche, che tentarono scalate e lanciarono apertamente offerte pubbliche d'acquisto. Il main business, però, resta quello: le costruzioni. Prospettive da miliardari. Sono passati anni da quel periodo. Il popolo ha deciso di schierarsi dalla parte dei palestinesi e ha occupato i luoghi pubblici. Gli abitanti della Striscia chiedono dignità. E questo significa, torniamo ancora una volta lì, rivendicare la sovranità sul proprio territorio. Prendersi spazio per esistere, questo è il punto. Negli spazi si giocano le battaglie: in città, nei quartieri più ricchi che imprenditori come Danilo Coppola aspiravano a rinnovare, nelle periferie e nei centri sociali, in piazza e nelle stazioni dei treni. Oggi come allora: sembra un coro ultras. È la politica.

