Le barche sono ripartite da Creta. Non sono più 51, ora sono 44. La Global Sumud Flotilla stringe i denti e continua a puntare verso Gaza, nonostante i droni israeliani, i guasti tecnici e le pressioni dei governi. È la missione più scomoda e più necessaria del momento: rompere un blocco che non è solo navale, ma politico, morale e umano. A bordo ci sono quaranta italiani e attivisti da oltre 40 paesi. Gente che non ha nessuna intenzione di mollare, anche se la Farnesina e il Quirinale continuano a ripetere il mantra della “prudenza”. Prudenza che, tradotto, significa: non disturbare Israele. Il ministro Tajani parla con Maria Elena Delia, portavoce della delegazione italiana, e le dice: “Non forzate il blocco, è pericoloso”. Poi aggiorna Meloni, che aggiorna Mattarella, che aggiorna l’opinione pubblica: insomma, tutti preoccupati per la sicurezza, nessuno per il fatto che a Gaza c’è un popolo intrappolato da 18 anni di assedio illegale. Le proposte sono sempre le stesse: fermarsi a Cipro, scaricare i beni umanitari, lasciarli passare attraverso Ashdod sotto controllo israeliano. In pratica, legittimare l’assedio e togliere alla Flotilla il senso stesso della sua missione. Non a caso gli attivisti hanno detto no: “Non cambiamo rotta, vogliamo rompere il blocco”.È vero: una decina di italiani ha deciso di scendere. Troppo alto il rischio dopo l’attacco coi droni. Ma chi resta non lo fa per spirito di avventura: lo fa perché sa che ogni metro di mare conquistato verso Gaza è un riflettore acceso sul genocidio in corso. Lo racconta anche Ivan Compasso, giornalista a bordo: “Chi è sceso non rinuncia al senso della missione. Tutti vogliono continuare ad accendere i riflettori”. In Italia la tensione sale. L’Usb ha già convocato presìdi in cento città, la Cgil minaccia lo sciopero generale, Salvini e Piantedosi parlano di “piazze pericolose”. Ma la piazza è l’unico posto dove la gente comune può dire chiaramente quello che la politica non osa: basta genocidio, basta complicità.

Anche quando la “Family”, una delle navi principali, ha avuto un guasto al motore, gli attivisti hanno reagito redistribuendosi sulle altre barche. Nessun cedimento. “Il nostro spirito di Sumud non può essere scalfito”, scrivono. Sumud, resistenza. Non a caso è il nome scelto per questa missione: non un viaggio disperato, ma un atto politico globale. E qui sta il punto: non si tratta solo di consegnare pacchi di cibo e medicine. La Flotilla è una sfida diretta all’illegalità internazionale. Dal 2007 Israele tiene Gaza sotto assedio, impedendo il libero passaggio di persone e beni. E dal 7 ottobre 2023 è iniziato uno sterminio di massa. Questo è un crimine di guerra. E oggi, con migliaia di morti palestinesi, con ospedali rasi al suolo e con i civili bombardati a tappeto, parlare di “genocidio” non è più uno slogan, è un dato di fatto. Gli attivisti lo sanno. Per questo ripetono: “Ridurre la Flotilla al solo scopo umanitario è strumentale. Noi siamo qui per rompere il blocco, denunciare l’occupazione, dire basta al genocidio”. La politica istituzionale prova a smussare, a mediare, a spostare la questione su un binario “sicuro”. Ma intanto lascia mano libera a Israele. E allora tocca a loro, ai civili disarmati in mare, sfidare la logica della guerra e l’inerzia diplomatica. Non sappiamo se riusciranno davvero a toccare le spiagge di Gaza. Ma sappiamo che, finché ci saranno barche che salpano per dire no all’assedio, Israele e i suoi alleati non potranno fingere che vada tutto bene. La Sumud Flotilla non porta solo cibo: porta la memoria delle stragi, la voce dei palestinesi e la certezza che il mare non può essere recintato da nessun esercito. E allora, che vadano avanti.
