Una torre che cade, un’immagine apocalittica che sembra scolpita nel cuore di una città che, fino a poco tempo fa, si pensava inattaccabile. La Torre delle Generali, uno dei tanti simboli del “modello Milano”, svetta ancora, ma è ferita, sotto inchiesta, come un monito di ciò che accade quando i sogni si trasformano in speculazioni, quando l’ambizione diventa avidità. Le indagini giudiziarie che scuotono il capoluogo lombardo – con l’arresto dell’assessore all’Urbanistica Giancarlo Tancredi e la richiesta di custodia cautelare per l’imprenditore Manfredi Catella, il “re del mattone” – non sono solo un fatto di cronaca. Come non lo è che il sindaco Beppe Sala sia indagato nello stesso filone. Sono il sintomo di un collasso più profondo, di un modello che si è piegato su se stesso, incapace di sostenere il peso delle sue stesse promesse. Milano, che nel 2015 si specchiava in Expo come in un sogno di grandeur, oggi si ritrova a fare i conti con un’eredità di illusioni, carovita insostenibile e una fuga di giovani che, disillusi, guardano al Sud come a una nuova terra promessa. Questo è il racconto di un fallimento, ma anche di una possibile rinascita altrove, nei modelli mediterranei che stanno riscrivendo il futuro delle città italiane.

La Milano di Expo 2015: un’illusione di New York
Nel 2015, Milano era una città che vibrava di possibilità. L’Expo, con il suo slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, aveva trasformato il capoluogo lombardo in un palcoscenico globale. I grattacieli di Porta Nuova scintillavano come simboli di un’Italia che poteva competere con New York, Londra, Dubai. La città si riempiva di turisti, di investitori, di giovani che sognavano una vita metropolitana fatta di opportunità, innovazione e cosmopolitismo. Era il “modello Milano”, una narrazione che dipingeva la città come il motore economico e culturale del Paese, un luogo dove tutto sembrava possibile. Io stesso, in quel periodo, ero stato travolto da quell’energia. Nel 2015 avevo aperto il Walden, un progetto che voleva essere più di un semplice caffè: uno spazio culturale, un crocevia di idee, un luogo dove filosofia, letteratura e convivialità si intrecciavano per dare vita a una Milano che non fosse solo finanza e moda, ma anche pensiero e comunità. Il Walden, ispirato al libro di Henry David Thoreau, era un sogno personale: un angolo dove i giovani potessero sentirsi a casa, discutere di libri, confrontarsi su idee radicali, immaginare un futuro diverso. Era un esperimento, certo, ma anche un atto di fiducia in una città che sembrava pronta a raccogliere ogni sfida. Eppure, già allora, sotto la superficie lucida di quel sogno, si intravedevano le crepe. Il “modello Milano” si fondava su una crescita vertiginosa, alimentata da un boom immobiliare che trasformava vecchie aree dismesse in quartieri di lusso, da una narrazione di successo che escludeva chi non poteva permettersi i ritmi e i costi di quella metropoli. Gli affitti schizzavano alle stelle, il costo della vita cresceva a dismisura, e i giovani – quelli che avrebbero dovuto essere il cuore pulsante di questa rinascita – iniziavano a sentirsi estranei nella loro stessa città.

Il crollo del mattone: le inchieste giudiziarie e il tradimento del modello
Oggi, a dieci anni di distanza, quelle crepe sono diventate voragini. Le inchieste giudiziarie sull’urbanistica milanese hanno portato alla luce un sistema di corruzione, falso e speculazione edilizia che ha travolto figure chiave dell’amministrazione comunale e del mondo immobiliare. L’arresto dell’ex dirigente Giovanni Oggioni, accusato di corruzione, depistaggio e falso, e la richiesta di custodia cautelare per l’assessore Giancarlo Tancredi e l’imprenditore Manfredi Catella, presidente del gruppo Coima, sono solo la punta dell’iceberg. Le indagini, come riportato da Il Post e il Corriere della Sera, parlano di una “espansione edilizia incontrollata”, di permessi edilizi concessi in modo illecito, di grandi palazzi spacciati per semplici ristrutturazioni di piccoli edifici, in violazione delle normative. Cantieri sequestrati, come quello della Torre delle Generali, e oltre 1.600 famiglie che hanno investito i loro risparmi in case ora sotto sigillo, sono il simbolo tangibile di un sistema che ha tradito la fiducia dei cittadini. Questo scandalo non è solo una questione di malaffare. È la spia di un modello di sviluppo che ha sacrificato la città sull’altare del profitto. Il “modello Milano” si è rivelato un bluff, come scrive Avvenire: un progetto di rigenerazione urbana che, anziché rispondere alle esigenze dei quartieri e dei cittadini, ha favorito gli interessi di grandi gruppi immobiliari, alimentando una bolla speculativa che ha reso Milano una città per ricchi. Il prezzo degli immobili è cresciuto del 41% tra il 2015 e il 2021, gli affitti del 22%, mentre i redditi sono aumentati solo del 13%, con disparità enormi tra le classi sociali. Milano è diventata una città che espelle chi non può permettersela, una metropoli che ha perso il suo cuore pulsante: i giovani.

Il carovita e la fuga dei giovani
Il carovita è forse il fallimento più evidente del “modello Milano”. Gli affitti, che in zone come Porta Nuova o CityLife possono superare i 2.000 euro al mese per un monolocale, sono insostenibili per chi non ha un salario da manager. Un giovane con uno stipendio medio di 2.000 euro al mese, come racconta la storia di un acquirente di Scalo House riportata da Il Post, non può permettersi di comprare una casa senza l’aiuto della famiglia, e spesso nemmeno di affittarla. La città, che un tempo attirava studenti e professionisti da tutta Italia, oggi li respinge. Secondo uno studio di Scenari Immobiliari, il rallentamento dell’edilizia causato dalle inchieste mette a rischio 38 miliardi di euro di investimenti, ma il vero danno è sociale: Milano sta perdendo la sua capacità di essere un luogo di opportunità. E così, i giovani se ne vanno. Non solo verso la periferia, ma verso il Sud. È un fenomeno nuovo, quasi impensabile fino a pochi anni fa. Le città meridionali, da Napoli a Palermo, da Bari a Catania, stanno vivendo una rinascita che Milano sembra incapace di replicare. I giovani tornano al Sud non solo per il costo della vita più accessibile, ma perché lì trovano comunità, autenticità, un senso di appartenenza che Milano ha smarrito. Le città del Sud stanno riscoprendo i loro modelli mediterranei: spazi pubblici vissuti, mercati rionali, una socialità che non si piega al ritmo frenetico della produttività. Milano, al contrario, si è chiusa in una logica di profitto che ha svuotato i suoi quartieri di anima.
Il Walden: un sogno spezzato
Torniamo al Walden. Quel progetto, che nel 2015 sembrava incarnare l’energia di Milano, non è sopravvissuto al mutare della città. Il Walden ha chiuso i battenti pochi anni dopo la sua apertura, schiacciato dai costi insostenibili di gestione e da un contesto che premiava i grandi marchi e le catene rispetto alle iniziative indipendenti. Il Walden voleva essere un luogo di resistenza culturale, ma Milano non era più interessata alla cultura come bene comune. Era diventata una città di vetrine, di eventi patinati, di narrazioni di successo che nascondevano la realtà di una metropoli sempre più escludente. La chiusura del Walden è stata per me un momento di riflessione profonda. Mi sono chiesto: dove avevo sbagliato? Ma la risposta non era nel progetto in sé, bensì nel contesto. Milano non era più la città che avevo immaginato. Il “modello Milano” del 2015, con la sua promessa di inclusività e innovazione, si era trasformato in un sistema che premiava i pochi a scapito dei molti. I falsi sogni – quelli di una città che potesse essere allo stesso tempo globale e accessibile, moderna e solidale – si erano infranti contro la realtà di una speculazione edilizia senza scrupoli e un carovita che ha reso la città invivibile per chi non appartiene all’élite.

Lo scollamento: dal 2015 a oggi
Lo scollamento tra la Milano del 2015 e quella di oggi è evidente. Nel 2015, Expo aveva creato un’illusione di unità: la città sembrava capace di coniugare tradizione e modernità, di essere un luogo dove i sogni potevano diventare realtà. Ma quella narrazione era fragile. Come scrive Sandro Balducci, professore del Politecnico di Milano, le buone intenzioni della rigenerazione urbana si sono trasformate in “brutti risultati”. La città si è riempita di grattacieli, ma ha perso la sua anima. I quartieri storici sono stati gentrificati, i negozi di vicinato sostituiti da catene internazionali, i luoghi di aggregazione culturale soffocati dalla logica del profitto. Il “modello Milano” si è rivelato un mito, un racconto che ha nascosto i problemi strutturali della città: la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, l’esclusione sociale, la precarietà lavorativa. I veri miti – quelli di una città che potesse essere inclusiva, che potesse crescere senza perdere la sua identità – sono stati sacrificati sull’altare di una modernità malata. Oggi, Milano è una città che invecchia, come racconta ParmaPress24, ma non nel senso demografico: invecchia perché ha perso la capacità di accogliere i giovani, di offrire loro un futuro.
Il ritorno al Sud e i modelli mediterranei
E allora, perché il Sud? Perché città come Napoli, Palermo o Lecce stanno diventando il nuovo orizzonte per i giovani? La risposta sta nei modelli mediterranei, che Milano ha dimenticato. Il Sud offre un ritmo di vita più umano, una socialità che non si misura in termini di produttività, una capacità di reinventarsi che nasce dalla resilienza e dalla creatività. A Napoli, ad esempio, i quartieri come Scampia stanno diventando laboratori di innovazione sociale, con progetti che coinvolgono giovani e anziani in un dialogo costante. A Palermo, il recupero del centro storico e l’apertura di nuovi spazi culturali stanno attirando artisti e professionisti che vedono nella città un’alternativa alla frenesia milanese. A Lecce, il boom del turismo culturale si accompagna a una riscoperta delle tradizioni locali, che diventano un punto di forza per costruire comunità più coese. Questi modelli mediterranei si basano su valori che Milano ha smarrito: la centralità della persona, la convivialità, il rispetto per il territorio. Mentre Milano si è piegata su se stessa, trasformandosi in una città-vetrina per pochi, il Sud sta riscoprendo la sua vocazione di luogo dove la vita è ancora possibile, dove il futuro non è un lusso per privilegiati ma un progetto collettivo. I giovani che tornano al Sud non lo fanno solo per necessità economiche, ma per una scelta di vita: preferiscono una città dove si possa vivere con meno, ma meglio, dove il tempo non sia solo un bene da monetizzare, ma un’occasione per costruire relazioni e significato.
I falsi sogni e i veri miti
Quali erano, allora, i falsi sogni del “modello Milano”? Il primo era l’idea che la crescita economica potesse essere infinita e inclusiva allo stesso tempo. Milano ha creduto di poter diventare una metropoli globale senza pagare il prezzo dell’esclusione sociale, ma il boom immobiliare e il carovita hanno dimostrato il contrario. Il secondo falso sogno era la convinzione che i grattacieli e i grandi eventi potessero sostituire l’anima di una città. La Torre delle Generali, come altri simboli del “modello Milano”, non è solo un edificio: è l’emblema di una città che ha sacrificato la sua identità per inseguire una modernità vuota. Il terzo falso sogno era la promessa di opportunità per tutti: Milano si è raccontata come una città meritocratica, ma ha finito per premiare solo chi aveva già risorse, lasciando indietro studenti, precari, lavoratori. I veri miti, invece, erano quelli che il Walden cercava di incarnare: una città capace di essere un laboratorio di idee, un luogo di incontro tra culture diverse, un spazio dove la crescita economica non soffocasse la creatività e la solidarietà. Questi miti non sono morti, ma si sono spostati altrove. Li troviamo oggi nelle città del Sud, dove la rigenerazione urbana non è solo speculazione, ma un processo che coinvolge le comunità locali, che rispetta la storia e il territorio, che guarda al futuro senza dimenticare il passato.

I problemi da affrontare e il futuro altrove
Milano, oggi, si trova a un bivio. Le inchieste giudiziarie hanno smascherato le fragilità del suo modello di sviluppo, ma non basta punire i responsabili. Serve ripensare la città, ricostruire un’idea di futuro che metta al centro le persone, non il profitto. I problemi da affrontare sono chiari: il carovita, che rende la città inaccessibile; la gentrificazione, che svuota i quartieri della loro identità; la precarietà lavorativa, che rende impossibile per i giovani progettare una vita stabile. Ma, soprattutto, serve una visione che restituisca a Milano la capacità di essere una città per tutti, non solo per chi può permettersela. Nel frattempo, il futuro sembra essere altrove. Le città del Sud stanno dimostrando che un altro modello è possibile: un modello che non insegue la grandeur di New York, ma valorizza la propria unicità, che non si piega alla logica del mercato globale, ma costruisce comunità resilienti. Milano potrebbe imparare da loro, ma per farlo dovrebbe abbandonare l’arroganza di chi si è creduto il centro del mondo e riconoscere i propri limiti. La Torre delle Generali, con le sue crepe e le sue inchieste, è un monito: nessuna città è invincibile, nessuna città può crescere senza ascoltare i suoi abitanti.
Verso un nuovo inizio
Il crollo del “modello Milano” non è la fine, ma un’opportunità. È l’occasione per ripensare una città che ha smarrito la sua strada, per ricostruire un futuro che non sia solo per pochi. Io, che ho visto il Walden nascere e morire, so che i sogni non si spengono facilmente. Si trasformano, si spostano, trovano nuovi luoghi dove mettere radici. Oggi, quei sogni vivono nel Sud, nelle città mediterranee che stanno riscrivendo il racconto dell’Italia. Milano può ancora cambiare, ma deve farlo con umiltà, imparando da chi, lontano dai riflettori, sta costruendo un futuro più umano. La torre è caduta, ma dalle sue macerie può nascere qualcosa di nuovo – se solo Milano avrà il coraggio di guardarsi allo specchio e cambiare.
