Droga, depressione, suicidi: Michele e Sasha, suoi amici, non ce l’hanno fatta.
Lui invece sì, grazie alla musica, al lavoro e a un disco che è una chiamata alla vita.
«A Garlasco succedevano cose strane. Io non ho mai partecipato, ma ho visto e sentito tutto…»
A Garlasco si cresce in mezzo alle nebbie, quelle vere e quelle che avvolgono da 18 anni un paese diventato sinonimo di mistero. Da quando Chiara Poggi è stata uccisa, in quella casa in via Pascoli, si è detto di tutto. Ma sotto sotto, certi racconti, certi nomi, certe ombre non sono mai sparite. Né dalla cronaca né dai ricordi di chi è nato lì. A parlare, in un'intervista esclusiva rilasciata al settimanale Giallo, diretto da Albina Perri, è Riccardo Bresciani, classe 1996, in arte Veider Bre. Cresciuto nel quartiere delle Bozzole, rapper, operaio e amico di Michele Bertani e Sasha Pinna, entrambi suicidi, entrambi connessi, direttamente o di striscio, a quella Garlasco inquieta, fatta di boschi, coca, videopoker e riti notturni. «Io sono proprio del quartiere delle Bozzole, sono cresciuto vicino al Santuario… Conosco bene i luoghi dove accadevano certe cose», racconta Bresciani. «Un giorno ho trovato la testa di una capra tra le campagne. Ho pensato subito ai riti satanici». Secondo lui e secondo tanti altri, i riti si facevano sul serio. Persone incappucciate nel bosco del Vignolo, simboli strani, messe nere. E gli esorcismi? «Al Santuario li facevano ogni mercoledì, per curare i malati». Dettagli che, oggi, si incrociano con una nuova pista: DNA ignoti sulla scena del delitto di Chiara Poggi. E il gruppo di amici di Michele Bertani, Sasha, Riccardo e altri, torna a essere sotto i riflettori.

Il rapper oggi ha riversato la sua storia nel disco “HOPERAIO, vivere o morire”: un mix di denuncia e catarsi. «Un gioco tra "operaio" e "hope", speranza. Noi eravamo una generazione con poco. Chi cadeva nella droga, chi nella depressione. Io avevo un padre assente, tanti problemi. Ma mi sono rialzato. Mi hanno salvato la musica, la mia compagna, il cane, i figli di lei. E il lavoro». Michele e Sasha no, non ce l’hanno fatta. Sasha si è impiccato nel 2014, Michele nel 2016. «Eravamo la compagnia del palazzetto. Sasha era come un fratello. Rideva sempre, mi diceva: "Ma che ci fai tu in mezzo a questi matti?"» «Ricordo il suo funerale: pianti disperati, lo sconcerto. Ma non è stata solo la storia d’amore finita. La depressione è un mostro silenzioso».A Michele lo chiamava Joystick. «Mi piaceva il suo modo di pensare, era forte». Sui simboli esoterici, le foto nei boschi, i tatuaggi col diavolo: «Sì, gli piacevano quelle cose. Ma con l’omicidio di Chiara non c'entra. Io penso che anche Stasi sia innocente, mi ricorda mio fratello. Non farebbe del male a nessuno». E intanto, scorrendo vecchie bacheche Facebook, si ritrovano frasi rap, foto in mezzo ai rovi, bar, videopoker, cocaina. «La coca girava. Ti trasforma, ti fa sentire Dio. Ma io sono sopravvissuto». Lui lavora da quando aveva 13 anni: tornitore, saldatore. E in “Mani rotte” ci ha messo tutta la rabbia buona che gli è rimasta. «Ai ragazzi dico: anche se hai fatto disastri, puoi rimediare. Trasforma tutto quel marcio in qualcosa di buono». Sasha oggi vive nelle sue strofe: «Te ne sei andato ma mi marchi stretto».

