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Come mai Il Fatto vende
in edicola e crolla in Borsa?
Ecco perché lettori e investitori
non la pensano nello stesso modo

  • di Andrea Muratore Andrea Muratore

24 gennaio 2024

Come mai Il Fatto vende in edicola e crolla in Borsa? Ecco perché lettori e investitori non la pensano nello stesso modo
Il Fatto Quotidiano regge in edicola ma in Borsa si sgonfia. Gli ultimi interessanti dati di Prima Comunicazione mostrano che la testata diretta da Marco Travaglio è stata, a novembre, l’unica del novero delle più vendute d’Italia a mantenere le cifre in edicola nel rapporto anno su anno e individuali reggendo l’impatto di un ennesimo “autunno nero” per l’editoria italiana. Ma invece in Borsa cosa le succede? Una spiegazione c'è

di Andrea Muratore Andrea Muratore

La testata diretta da Alessandra Ravetta segnala un calo per diciannove dei primi venti quotidiani più venduti, ma nella vendita individuale che non risparmia nemmeno gli storicamente ben performanti quotidiani locali a tenere botta è proprio Il Fatto Quotidiano: queste ricerche, nota Prima Comunicazione, “comprendono il dato aggregato della vendita individuale in edicola e la vendita individuale digitale, non legata a promozioni o offerte speciali. È quindi la fotografia “vera” del mercato dei quotidiani, di chi compra il giornale perchè lo vuole davvero e non spinto da un abbonamento a costo irrisorio che spesso finisce per non rinnovare”.  Quel piccolo segno verde, quel +0,88% di crescita, quelle 425 copie in più, ogni giorno, in edicola sono per Il Fatto la vittoria del personale “referendum quotidiano” con i lettori. E non è scontato, come mostrano i dati. La combattiva testata ottiene una rendita di posizione dalla sua capacità di essere marcatamente d’opposizione al governo Meloni. Dalle inchieste sui ministri Guido Crosetto e Daniela Santanché, coi loro intrecci tra politica e business, al battagé contro Francesco Lollobrigida, Maurizio Gasparri, Vittorio Sgarbi e altri esponenti del centrodestra passati per problematiche e scandali, fino alla critica alle scelte di Meloni di riformare la giustizia, modificare la Costituzione, tagliare il Reddito di cittadinanza e sostenere a viso aperto l’Ucraina e Israele. Il Fatto torna alle origini, a essere spina nel fianco: può piacere o meno, ma nei governi Draghi e Meloni la testata è stata tra le poche a offrire un controcanto alla narrazione governativa in forma costante e basata su battaglie non evidenziate come ambigue. Sul Gruppo Gedi pende, ad esempio, il nodo del presunto “conflitto d’interessi” sollevato da Carlo Calenda sull’assenza di dichiarazioni circa la crisi di siti ex-Fiat come la Magneti Marelli di Crevalcore.

Il direttore del Fatto, Marco Travaglio
Il direttore del Fatto, Marco Travaglio

Il Fatto guidava l’opposizione a Mario Draghi e dal quotidiano di Marco Travaglio è partita una delle operazioni che ha contribuito allo smottamento del suo governo con l’intervista a Domenico De Masi in cui il sociologo parlava della presunta richiesta di Draghi a Beppe Grillo di rimuovere Giuseppe Conte dalla guida del Movimento Cinque Stelle. Goccia che ha fatto traboccare il vaso nei rapporti tra Draghi e il suo predecessore. Al suo fianco c’era La Verità, combattiva soprattutto sulle politiche pandemiche, le scelte europee, l’atlantismo totale di Draghi. Con l’ascesa di Meloni Maurizio Belpietro è stato chiamato al governismo e, non a caso, dopo anni di boom favoriti dalla pandemia ha iniziato a frenare. La testata di Belpietro è scesa del 12%, e tutti i quotidiani “governisti” la seguono. Il Giornale ormai vende meno de L’Eco di Bergamo, mentre Il Giornale di Brescia e L’Unione Sarda sovraperformano Libero e Il Tempo, che scompaiono nella nebbia della battaglia quotidiana con le scelte dei lettori e escono dalla top 20. Travaglio e i suoi vendono più copie della somma del polo editoriale della “Fox News meloniana” della famiglia Angelucci proprio per le scelte attivamente all’opposizione. Cala, tra i maggiori quotidiani nazionali, il più filogovernativo, ovvero Il Messaggero. Non sappiamo quanto attivamente possano aver pesato sulla diffusione della testata la scelta di Travaglio di promuovere firme identitarie e divisive: ma Il Fatto Quotidiano si è distinto anche per la sua capacità di polarizzare il dibattito. Alessandro Orsini e Elena Basile hanno sparato a zero sulle linee delle altre testate sulla politica estera, Selvaggia Lucarelli ha usato il quotidiano come tribuna delle sue “crociate”, da Natangelo a Daniele Luttazzi la testata è stata anche “casa” per una satira irriverente. Quel che è certo è che le vendite in edicola, reggendo, danno respiro alla testata: Il Fatto ha visto il suo editore, Seif, chiudere il 2022 con un utile d’esercizio di circa 2,5 milioni di euro nella gestione operativa. E questo ha permesso a Seif di reggere il graduale declino del suo titolo in Borsa. Al momento della quotazione, la Società Editrice Il Fatto valeva circa 18 milioni di euro. Oggi ne vale circa 7,5. I grafici sull’andamento, dall’ingresso a Piazza Affari nel 2019 a oggi, mostrano una tendenza chiara: Seif ha oscillato tra i 65 e 75 centesimi ad azione nel primo biennio della sua attività in Borsa. Da giugno 2021, fine dell’emergenza pandemica e via dell’assalto frontale a Draghi, il titolo ha perso circa il 60% del valore, scendendo a circa 25-28 centesimi per azione nelle varie contrattazioni. La mossa non è da vedere necessariamente come controindiciativa rispetto al risultato operativo del gruppo. La realtà è che il consolidamento della testata di Travaglio nella fase di linea dura d’opposizione ha permesso a Seif di consolidare anche l’azionariato. E dunque di aumentare la quota di azioni proprie direttamente detenute da Seif stessa, riducendo dunque l’appetibilità del gruppo per compratori esterni. Col sostegno di Louis Capital Market, società britannica di gestione del risparmio, Seif ha provveduto tra 2021 e 2022 a un piano di acquisto di azioni proprie.

Peter Gomez e Marco Travaglio
Peter Gomez e Marco Travaglio

L’obiettivo di Seif è consolidare il controllo in mano al nucleo storico della cooperativa editoriale che lanciò il giornale nel 2009: ad oggi, questo ha accumulato in mano a Seif stessa un decimo circa del capitale, per la precisione il 9,64%. “Non soltanto si tratta di vendere, possibilmente a prezzo generoso, quote esistenti della società così da ottenere un incasso immediato, ma anche di poter liquidare successivamente altre quote (a meno di accordi specifici tra azionisti o con i primi finanziatori dell’impresa) sulla base del prezzo fatto in Borsa e aggiornato in maniera più o meno continuativa”, scriveva lo scorso anno su Il Riformista l’economista Riccardo Puglisi. Ad oggi Seif è il terzo azionista di sé stessa, cosa inusuale per una società quotata. I primi proprietari di azioni sono il giornalista Antonio Padellaro e la presidente del gruppo Seif, Cinzia Monteverdi, col 16,25% ciascuno delle quote. Terza Seif stessa. Tra gli azionisti con quote minori segue lo storico azionista Chiarelettere: l’editore detiene il 4,17% delle azioni ed è socio de Il Fatto, dei cui giornalisti è l’editore, dalla nascita nel 2009. Tra i giornalisti Marco Travaglio ha il 4,88% delle quote, Peter Gomez il 3,25% e Marco Lillo il 2,44%. Lo stratega digitale, Luca D’Aprile, al Fatto dalla nascita, detiene l’1,13% Complessivamente, la somma tra Padellaro, Monteverdi, Chiarelettere, Travaglio, Gomez, Lillo e D’Aprile supera il 44% delle quote. Il mercato è circa al 34,5%. Le azioni proprie in mano a Seif garantiscono che il nucleo storico della testata, che tiene in edicola con i lettori che continuano a seguirla, sia al comando dell’imbarcazione. Una strategia in nome della quale Il Fatto sacrifica i profitti borsistici. Ma in editoria, in questa fase, è necessario, per reggere, compiere scelte decise. E spesso per essere in sintonia con i lettori conviene distaccarsi, nelle priorità, dagli investitori finanziari.

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