Nell’estate del 2016 vivevo negli Stati Uniti da quattro anni e dal mio punto di osservazione, un quartiere di Brooklyn a un tiro da tre da Prospect Park, la candidatura di Donald Trump a Presidente era poco più che una barzelletta. Non conoscevo nessuno che lo avrebbe votato, ma neanche qualcuno disponibile ad accordargli una sola chance di vittoria su un milione. L’autorevolissimo New York Times scriveva che il vantaggio che la Clinton aveva su di lui era il più ampio margine di vantaggio nella storia. Poi ad agosto andai a fare un viaggio nel Sud del Paese, e la mia percezione cambio completamente. Lungo il Mississippi si succedevano lenzuoli appesi con scritto “Go Trump”; nelle pianure verdi dell’Alabama, ogni fattoria aveva esposto un cartello “Vote for Trump”; e nel divertimentificio di Myrtle Beach, la maggior parte delle persone se ne andava in giro con il cappello rosso Maga e la maglietta di The Donald. Nel totale disinteresse dei media, interessati solo a ciò che accade sulle due coste, Trump non era solo diventato il leader di un partito, ma aveva raggiunto un obiettivo ben più importante. Aveva creato un popolo a sua immagine e somiglianza, per il quale lui non era solo un candidato Presidente, quanto un’icona, un leader, un eroe in cui immedesimarsi. Si trattava di un fenomeno di importanza storica: se un plurimiliardario di Manhattan diventava un simbolo per le classi meno abbienti, voleva dire che la frattura tra gli strati inferiori della popolazione e le cosiddette “élite” era ormai devastante. “Poco male”, pensai. “Ora la sinistra americana, e a seguire quella del resto del mondo, saranno obbligate a tornare ad occuparsi di cose concrete”. E sbagliai completamente la previsione. Invece di cercare di capire le ragioni della vittoria di Trump, i democratici iniziarono una crociata ideologica capace di contraddire tutti i principi sulla correttezza dell’informazione fino a quel momento considerati sacri. Trump ha avuto contro tv, giornali, scrittori, blogger, star del cinema, cantanti, influencer, ha subito due tentativi di impeachment (unico nella storia) uno più pretenzioso dell’altro, più innumerevoli processi e accuse di stupro, furto, falsa testimonianza, alto tradimento, persino le dimensioni del suo pene sono diventate un fatto di dileggio e di dominio pubblico.
Durante il suo mandato, a leggere i giornali, a guardare la tv, sembrava che il mondo intero fosse sul punto di finire da un momento all’altro per effetto di un suo colpo di testa: invece non solo non è accaduto nulla di speciale, ma la borsa americana ha raggiunto i massimi storici. Nel 2020 avrebbe dovuto finire stritolato alle elezioni, si parlava di margini a due cifre, invece ha perso di un soffio, in una tornata elettorale svoltasi in circostanze irripetibili a causa della pandemia. Sarebbe dovuto nel migliore dei casi sparire e nel peggiore marcire in galera: invece ieri notte ha vinto ancora, primo candidato dal 1976 a vincere in Iowa e New Hampshire. Dovesse vincere anche in South Carolina, la nomination sarebbe ufficiale. Eppure, anche stamattina, come da otto anni a questa parte, illuminati opinionisti e i pensatori sapienti che animano “il dibattito delle idee” aldilà e aldiquà dell’oceano insistono nell’ignorare l’unica domanda che conti qualcosa. Perché? Perché Trump continua a vincere? Perché più i media ne parlano male, più lui guadagna voti? Perché è capace di connettere in maniera così solida con il suo elettorato, tanto da aver dato origine a una specie di culto, a differenza della maggior parte dei leader politici di oggi? A pensarci bene, la stessa dinamica è osservabile nel resto del mondo. In Italia, per esempio, ci si strappa le vesti per un ipotetico “ritorno del fascismo” rappresentato da un gruppo di pirla che fanno il saluto romano: ma nessuno pensa di chiedersi oggettivamente come sia possibile che la Meloni sia passata dal 3 al 29%. Grosso modo la stessa dinamica che si osserva con Marine Le Pen in Francia o con l’estrema destra in Germania: si grida alla catastrofe imminente, ma ci si guarda bene sia dal salire in montagna a imbracciare i fucili sia dal chiedersi come sia possibile che il popolo voti per loro. E mentre si continua a tenere la testa sotto la sabbia, quel mix di estremismo e populismo che caratterizza la destra moderna governa ormai praticamente ovunque (basta vedere chi hanno appena eletto in Argentina) e dove non governa è solo perché’ o si sta preparando a governare ancora o tutti gli altri partiti si sono messi insieme per arginarla, col risultato di produrre ibridi incapaci di decidere.
Certo, un’analisi di questo tipo comporterebbe risultati drammatici. Porterebbe a rendersi conto, per esempio, che sull’immigrazione di massa la maggioranza del Paese reale ha idee molto diverse da quelle di chi scrive su X; che i diritti civili non sono riconosciuti come questione dirimente o comunque prioritaria rispetto a quelli economici; che quando si dice che un uomo può rimanere incinto la maggior parte delle persone commenta come Fantozzi commentava la corazzata Potemkin; che il cambiamento climatico è questione troppo tecnica per eccitare e orientare i cuori dell’elettorato. E via dicendo. Meglio allora continuare a fare finta di niente. Meglio rinchiudersi nella ridotta della propria ztl, e da quel fortino alzare a dismisura il volume della retorica, accusando il popolo bue di non capire, di essere manipolato da Facebook e dalle fake news. Chissà quante volte da qui a novembre sentiremo Biden chiamare a raccolta tutti gli americani nel nome dell’allarme democratico. Chissà quante volte da qui alle elezioni europee leggeremo che la Meloni è brutta, cattiva e fascista. Con l’unico risultato di renderli ancora più forti e vincenti.