Nike trema sotto il peso dei dazi imposti dagli Stati Uniti sulle importazioni dalla Cina, che rischiano di mettere in ginocchio una delle aziende più iconiche dello sportswear mondiale. A lanciare l’allarme è stato il CFO Matt Friend, che ha stimato un impatto fino a 1 miliardo di dollari sui conti aziendali, definendo la situazione “un nuovo e importante ostacolo” per la struttura dei costi del gruppo. Il colosso con lo “swoosh” ha dovuto correre ai ripari con misure drastiche: dal taglio della dipendenza produttiva dalla Cina all’aumento dei prezzi di sneakers e abbigliamento negli Stati Uniti. Una strategia forzata per cercare di limitare i danni di una guerra commerciale che continua a mordere. La Cina, fino a poco tempo fa cuore pulsante della produzione Nike, oggi perde terreno. Attualmente il 16% delle calzature Nike è prodotto lì, ma l’azienda punta a ridurlo drasticamente, portandolo a una quota a cifra singola entro fine anno fiscale. Una svolta che traduce in una rapida riallocazione della produzione verso Paesi a costi più contenuti, sacrificando così l’ormai tradizionale centralità cinese nella catena globale del valore.

“Non abbandoneremo la Cina – ha precisato Friend –, ma bilanceremo la nostra supply chain per migliorare efficienza e margini.” Un modo diplomatico per dire che il “Made in China” non è più sostenibile ai prezzi attuali, in un contesto di dazi e instabilità geopolitica. I dati trimestrali fotografano una realtà complessa: utili in caduta libera, i peggiori degli ultimi tre anni, con ricavi a 11,1 miliardi di dollari (-12% rispetto all’anno precedente). Eppure, nonostante la crisi, il titolo Nike ha chiuso in rialzo nelle contrattazioni after-hours, spinto dalla fiducia degli investitori nel piano di rilancio del gruppo. Al timone del turnaround è tornato Elliott Hill, richiamato dal pensionamento nel 2023, con l’obiettivo di rimettere in carreggiata il brand. “Sappiamo che questi numeri non ci rappresentano”, ha detto Hill, “ma siamo fiduciosi che il peggio sia alle spalle".