Anche se in un certo senso la satira la inventammo noi, ai tempi della grassa antica Roma satura di umanità varia da dissacrare con perfidia (satura difatti è l’origine della parola), l’Italia non è fatta per questo genere indefinibile, la cui unica regola è quella di non averne e la cui materia è fornita dalle convenzioni e dai tabù, diremmo oggi dal politicamente corretto, differente in ogni epoca, per cui ad esempio Giovenale poteva impietosamente ritrarre il cinedo, che oggi tradurremmo con frocio, come un essere effeminato e invertebrato, mentre a noi suonerebbe come una volgare offesa punto e basta. Le Meloni’s, Giorgia premier e Arianna sorella, come tutti i borghesucci di destra e anche di sinistra si sono adontate per la vignetta di Natangelo sul Fatto Quotidiano, che in realtà prendeva di mira il cognato della prima e il marito della seconda, ossia il ministro Francesco Lollobrigida sulla “sostituzione etnica”. Non sanno, o fingono di non sapere che la satira, per esser tale, deve far incazzare. E deve far incazzare perché il suo scopo, deformando la realtà, è far riflettere sul grottesco, non far solo o genericamente ridere, né tanto meno sorridere. Deve creare scandalo.
Come disse qualche anno fa Mario Cardinali, il direttore del Vernacoliere (uno dei pochi covi di professionisti dell’irrisione, in questo Paese di tromboni), la satira viene dal “bisogno dell’anima e dell’intelletto di rompere i coglioni”. Naturalmente, ognuno interpreta questo bisogno a modo suo, purché vada a “opporsi all’ordine e alla visione generale”. La satira, quindi, è nella sua essenza teppista, anarcoide, irregolare. E anche irresponsabile, se per responsabilità intendiamo il rispetto timorato degli idoli del presente, che siano etici, politici, sociali o religiosi. La satira deve essere irrispettosa, perché è più di uno sberleffo irriverente, non si esaurisce nella battuta comica, va oltre l’umorismo, per quanto nero e caustico. Non è una pernacchia o una caricatura, è una vera e propria critica alla società attraverso l’estro provocatorio dell’artista, armato di penna come fosse una spada. Vuole dare cazzotti nello stomaco, non buffetti o spettacolini da guitti ("per farla bisogna avere l'indole omicida", diceva scherzando, ma non troppo, un maestro come Sergio Saviane). È arte che vuol far male.
Non per niente si chiamava Il Male la sola rivista di respiro nazionale che il nostro Paese abbia potuto vantare come indimenticabile esempio di giornale satirico premiato dal successo popolare, perché con le contropalle (che, intendiamoci, pur senza exploit ebbero anche, a destra, Candido, o a sinistra Cuore). Migliore, a giudizio di chi scrive, anche del celeberrimo Charlie Hebdo parigino, perché di rado caduto nella degenerazione a cui la satira può andar incontro, e cioè l’insulto per l’insulto, l’equivalente del rutto e della scorreggia. Certo, erano altri tempi, si era a cavallo fra gli anni ’70 e ’80, il milieu intellettuale ovviamente non era lo stesso e non aveva le stesse ascendenze dei francesi, che hanno una tradizione di contestazione del potere imparagonabilmente più radicata e forte della nostra (e infatti, se la tirano parecchio). Identico però era lo spirito di fondo: quel senso libertario, letteralmente inteso, di sciogliere nell’acido corrosivo le parole d’ordine dei potenti, i sacri totem, le certezze diffuse, le mode per definizione idiote, la mostruosa normalità delle incrostazioni mentali. Come? Scomponendo, rovesciando e sgonfiando i luoghi comuni, colpendo di fionda e di bastone i bersagli di volta in volta scelti pur di sollevare del sano casino, anche grevemente, anche disgustosamente, ovvero contro il gusto dominante che è sempre, per sua natura, perbenista.
Dopodiché, chi di sarcasmo ferisce non può aspettarsi certo una facile benevolenza di ritorno. Ci sta tutto che il bersagliato di turno e parte dell’opinione pubblica saltino sulla sedia, si offendano, siano percorsi da fremiti di sdegno e di ribrezzo: è proprio la reazione che la satira cerca e deve cercare. E qualora anche la tal rivista o il tal autore scadano, a proposito di gusti, nel puro cattivo gusto, non costituisce problema criticarli a loro volta, facendoli a pezzi e restituendo loro la pariglia. A condizione che si abbia ben in mente che il campo artistico, cui la satira di diritto appartiene, non sottostà alle norme e consuetudini che invece, per esempio, caratterizzano il giornalismo. La vignetta incastonata nelle pagine di una testata giornalistica è di un’altra categoria, ha un altro linguaggio e scavalca i confini. Un disegnatore o scrittore satirico non è un editorialista. O, per meglio dire, è come se lo fosse, perché scaraventa addosso ai lettori la propria, personalissima opinione, ma su un altro piano, su un altro livello del discorso: ugualmente, o almeno si spera, profondo nel contenuto, e irritante, fuori misura, maleducato, straniante e con quel grano di divertita follia nella forma che, bene o male, dovrebbe renderlo riconoscibile e a prova di scemo. Fa ridere in quanto è un gioco al massacro, all'oltraggio, a tirar giù tutto. Con l'innocenza feroce dei bambini pestiferi.
Perciò, signori e lorsignori assisi su scranni e poltrone (e non ci riferiamo solo a quelle governative e ministeriali, ma anche ai poggia-deretani dell’uomo comune sempre un po’ vile e ipocrita quale noi, sia ben chiaro, pure siamo), se prima o poi qualche stronzata la commettete o la proferite, il che è inevitabile perché capita a tutti e figuriamoci a voi, qualcuno che ve la rimandi indietro decostruita e intinta nel veleno, prendendovi per i fondelli per vocazione e contratto, ci vuole. Che poi lo faccia più o meno bene, è un altro paio di maniche. Ma questa suscettibilità ipertesa, questo scattare offesi nell’orgoglio e nel decoro, questo moralismo del non-si-fa e non-si-dice, denotano soltanto una desolante debolezza. E lo sappiamo bene, almeno noi che tifiamo satira anche quando magari dovesse farci schifo, che la debolezza, direbbe il Vernacoliere, “dell’anima e dell’intelletto” è il carburante dell’intolleranza e della censura. E dunque, cari falsissimi cuori di panna, come l’Ugo Tognazzi finto capo delle Br in quella famosa, e vaccaboia se ardita, pagina del Male, rivendichiamo, e sempre rivendicheremo, il diritto alla cazzata. Del resto, c’è al mondo qualcosa di più serio delle cazzate?