La grande partita è quella che, da decenni, vede i due alleati storici sulle due sponde dell’Atlantico divergere sulla grande strategia di fondo: posto che sia Francia che Usa, a parole, difendono i valori occidentali, la democrazia e il rifiuto di tirannide e autoritarismo, nei fatti c’è un grande iato che le divide. Ovvero la concezione dell’Europa nel quadro dell’alleanza occidentale imperniata sulla Nato e le organizzazioni affini. Per la Francia, da Charles de Gaulle a Emmanuel Macron, l’Europa è vista come uno spazio di pertinenza pressoché esclusiva e come un corpo politico che deve mantenere un gradiente d’autonomia da Washington. Ieri era il deterrente atomico a fare la differenza, ora sono le grandi questioni economiche, strategiche, tecnologiche energetiche. Per Washington l’Europa è la perla più preziosa del mai dichiarato “impero” statunitense. Proiezione decisiva per i contenimenti a rivali come Russia e Cina. Cosa c’entra l’Italia in tutto ciò? Molto. Fermo restando che Parigi ha nella Germania un partner con cui condivide la visione dell’Europa, la presenza dell’Italia nell’uno o nell’altro campo cambia gli equilibri europei. Se tradizionalmente il Regno Unito era l’alfiere di Washington in Europa, garanzia dell’atlantizzazione del Vecchio Continente e dell’Ue, dopo la Brexit gli Usa hanno bisogno di un referente forte, dato che i Paesi più “amerikani” (Polonia, Olanda, Danimarca) dell’Ue non possono bastare. Per questa ragione negli ultimi anni si è amplificata la corsa al controllo dello Stato profondo italiano tra le cordate “francesi” e quelle “americane”. In quest’ottica le recenti parole dell’ex premier Giuliano Amato sulle presunte responsabilità francesi nel disastro di Ustica sembrano mostrare un rinfocolamento del dualismo tra le varie cordate ai livelli più alti. Non dimentichiamo, infatti, che Amato, membro del comitato esecutivo dell’Aspen Institute vicinissimo al potere Usa, è ritenuto uno dei politici di centro-sinistra più vicini a Washington. Mettere all’angolo Parigi è oggi funzionale alla strategia di chi vede che l’Italia dovrebbe, in futuro, guardare maggiormente al mondo atlantico.
Il “partito francese”
Premettiamo un dato di fatto: tra politica, apparati dello Stato, militari, intelligence e tutto ciò che è “sistema-Paese”, dall’industria alla finanza, appartenere a una cordata di vicinanza a un attore politico estero non significa essere, chiaramente, suoi referenti o, peggio, peccare di fedeltà prioritaria alla potenza straniera. Piuttosto, ogni grande potenza ha i suoi “partiti” di riferimento in Italia, intesi come aggregazioni di figure del settore pubblico e privato che hanno una sensibilità particolare e entrature per i desiderata di un dato Paese o conoscenze a livelli apicali tra i suoi decisori. Accreditandosi come figure di potere non solo in Italia ma anche all’estero. Francia e Stati Uniti portano tali entrature ai massimi livelli dello Stato. E negli ultimi anni, non a caso dopo la Brexit, è partita a tutto campo una sfida tra le due cordate di riferimento. In particolare, se gli anni in cui, dopo il 2013, il Partito Democratico è stato in varie fasi al governo hanno rappresentato un terreno favorevole per i “francesi”, con Mario Draghi e Giorgia Meloni sono gli “americani” ad avanzare. In quest’ottica, ad esempio, negli anni di Alessandro Profumo e della presidenza dell’ex direttore dei servizi Luciano Carta un’azienda come Leonardo, organica tradizionalmente al mondo degli apparati atlantici, si è aperta a commesse per la Difesa di matrice transalpina. In Eni sono entrate figure ritenute vicine a Parigi come l’ex viceministro degli Esteri Lapo Pistelli. Lo stesso compromesso che ha portato nel 2015 all’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella ha avuto come kingmaker leader e figure istituzionali vicine a Parigi: su tutti, Matteo Renzi e Dario Franceschini.
Il filo rosso Italia-Usa
Giuseppe Conte e il Movimento Cinque Stelle hanno, soprattutto dopo l’asse col Pd nel 2019, cavalcato l’esistenza consolidata di questo sistema. Mario Draghi e Giorgia Meloni hanno ri-atlantizzato buona parte degli apparati. Sono ritornate in auge figure molto vicine agli ambienti Usa come Paolo Scaroni, lo stesso Giuliano Amato, Franco Gabrielli e aziende come Eni e il suo ad Claudio Descalzi hanno impostato una virata filo-americana nelle scelte che ha contribuito a plasmare il sistema-Paese. Lo Stato italiano, con Draghi prima e con il duo Meloni-Giorgetti poi, ha scelto l’americana Kkr per sostituirsi alla francese Vivendi come investitore di riferimento in Telecom-Tim e nella sua rete di tlc e cavi sottomrini. Questi sono i riflessi interni di una sfida a tutto campo che vede, in realtà, partite più profonde coinvolgere Parigi e Washington. In Africa, ad esempio, la disgregazione della Françafrique a colpi di golpe filo-russi è stata ben poco contrastata da Washington, che alla Francia imputa di aver accelerato la disgregazione della Libia con l’inopinata guerra del 2011. La Francia ai tempi di Nicolas Sarkozy sosteneva l’austerità tedesca avversata dagli Usa di Barack Obama, che spinsero perché Mario Draghi ascendesse alla Bce; l’Italia si è trovata poi allineata agli Usa, e non al duo Parigi-Berlino, su diverse questioni: temi come l’accelerazione del contrasto alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022 hanno creato lo stesso asse Usa-Regno Unito sostenuto da Polonia e Italia che fu diciannove anni prima, nel 2003, il cuore dell’interventismo occidentale in Iraq. Mentre Francia e Germania hanno in entrambi i casi, almeno in termini relativi, tirato il freno.
Il Quirinale media
In questo confronto, chiaramente, esistono figure-cerniera e camere di compensazione. La più importante delle quali è, da tempo, il Quirinale. “Pivot” del nostro Stato profondo. Punto decisivo di rappresentanza dell’Italia rispetto al mondo. Negli ultimi anni, i presidenti della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, hanno sottolineato l'importanza degli orientamenti euroatlantici del Paese. In particolare, Napolitano ha mantenuto un filo diretto con i leader europei durante la transizione dal governo Berlusconi IV al governo Monti e nelle fasi più complesse della prima era renziana. Mattarella, da parte sua, ha esplicitato questa linea nella sua dichiarazione alla Camera dei Deputati nel 2018, quando ha affermato che "l'Italia è un Paese euroatlantico". Napolitano e Mattarella hanno ritenuto che questi orientamenti siano fondamentali per la stabilità del Paese nel quadro internazionale. Per questo motivo, hanno condizionato l'approvazione dei nomi scelti dai vari governi per i ministeri-chiave (Economia, Esteri, Difesa) all'adozione di tale linea. Si tratta di una chiara volontà di mediare tra i vari riferimenti del Paese per evitare una “guerra tra bande” deleteria e problematica. Per un’Italia che grandi potenze vedono come satellite, piuttosto che alleato, l’obiettivo sarà sempre, in futuro, quello di mediare tra input e sollecitazioni esterne e la difesa delle priorità del proprio interesse geopolitico.