L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha avuto un chiaro messaggio politico-escatologico, legato al fondamentalismo e all'antisemitismo nel mondo arabo, qualcosa di storico, radicato, grave, rovinoso, violento, incensurabile se si vuole essere onesti. La lettura marxista e anticolonialista che ne è stata data, come di un atto di resistenza all’entità sionista, presenta tutti i punti deboli che aveva questa lettura quando si sosteneva la rivoluzione algerina o quella iraniana, entrambe sfociate nell’autoritarismo teocratico e fanatico.
Di più: la stragrande maggioranza delle proposte di una risoluzione è stata rifiutata dai Paesi arabi. Sia quelle più inique (come quella del ‘48), sia quelle più giuste e anzi, potenzialmente perfette (come quelle degli anni Duemila). Piano Peel 1937: 70-80% Palestina agli arabi e 17% agli israeliani; il Gran Muftì di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, rifiutò categoricamente (insieme agli altri Paesi arabi). Israele accettò. Risoluzione 181 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre 1947, 55% della Palestina agli ebrei e 45% della Palestina agli arabi; la risoluzione venne approvata con 33 voti a favore (sia dal blocco occidentale, tranne Regno Unito, sia da parte dell’Urss). I voti contrari furono quelli dei Paesi arabi; Israele accettò per la seconda volta; vari scontri interni tra arabi e ebrei nella Palestina mandataria. Il 14 maggio 1948 Israele dichiara l’indipendenza, il 15 maggio 1948, un giorno dopo, cinque Paesi (Egitto, Giordania, Iraq, Libano e Siria) dichiarano guerra. Guerra che perderanno. Dopo la guerra di difesa, Israele conquisterà il 78% del territorio (meglio di entrambe le risoluzioni precedenti, rifiutate entrambe le volte dai Paesi arabi e dai palestinesi). Nel 1949 si arriva a degli accordi con i singoli Stati e Israele poté garantirsi il controllo di tutto il territorio conquistato fino al 1967 (non era prevista, al momento della tregua, la restituzione dei territori; la Striscia ora è sotto l’Egitto). Nel frattempo ci furono altri scontri.

Nel 1967 scoppiò la guerra dei Sei Giorni, con un attacco preventivo di Israele contro l’Egitto. La guerra venne vinta da Israele che riuscì a conquistare la Striscia, il Sinai, le Alture del Golan, Gerusalemme Est e la Cisgiordania. Nello stesso anno l’Onu dichiarò la Risoluzione 242, che chiedeva a Israele di ritirarsi da parte dei territori occupati e ai Paesi arabi di riconoscere finalmente Israele. Israele accettò pretendendo discrezionalità sull’interpretazione (cioè: non volevano ritirarsi da tutti i territori, visto che di ritiro totale in effetti non si parlava). La Lega Araba optò per i “tre no”: no alla pace con Israele, al riconoscimento di Israele e a negoziati con Israele. Proseguirono i conflitti. Nel 1978 si tentarono altri accordi con mediazione degli Stati Uniti tra Sadat (Egitto) e Begin (Israele). Si chiedeva che i territori palestinesi (Gaza e Cisgiordania) diventassero autonomi per un periodo di cinque anni, nell’arco dei quali si sarebbe provveduto a capire quali sarebbero stati i rapporti tra Israele, Giordania e palestinesi e si sarebbe capito come poter ottenere l’autogoverno palestinese. Israele avrebbe restituito definitivamente il Sinai all’Egitto, l’Egitto avrebbe invece riconosciuto finalmente Israele. Sia Israele che l'Egitto accettarono. Israele restituì all’Egitto il Sinai, mettendo fine a trent’anni di guerra. L’Egitto fu il primo Paese arabo a riconoscere Israele. Per questo motivo, però, venne espulso dalla Lega araba e Sadat venne assassinato da fondamentalisti islamici. Siamo al 1993-1995, accordi di Oslo (1 e 2): Israele e Olp si riconoscono reciprocamente, si garantisce un governo limitato nei territori palestinesi e si procede per capire come risolvere definitivamente la questione dei due Stati. Entrambi le parti accettano ma gli scontri continuano. Il governo di Netanyahu amplia gli insediamenti israeliani.
Nel 2000, con Clinton, Barak (Israele) e Arafat (palestinesi) avrebbero potuto trovare un nuovo accordo, con Striscia, Cisgiordania (circa il 90%) e Gerusalemme Est sotto i palestinesi, dei blocchi strategici per Israele e la possibilità che i rifugiati palestinesi venissero risarciti economicamente e riposizionati fuori dai territori israeliani, sotto il futuro Stato palestinese. Da quello che sappiamo, Arafat rifiutò senza proporre alternative. Siamo al 2006, Documento dei prigionieri. Le principali fazioni palestinesi (da Hamas a Fatah) si uniscono per creare uno Stato palestinese e riconoscere (implicitamente) lo Stato israeliano. Abbas accetta, Hamas accetta ma rifiuta di riconoscere Israele. Nel 2006 Abbas e Hamas provano a governare insieme e non riescono. Vincerà Hamas. La stessa situazione del 2000 si presentò nel 2008, quando Abbas rifiutò sostanzialmente lo stesso tipo di accordo. Nel mentre ci sono state guerre, quasi tutte difensive per Israele, tranne quella del ‘67, preventiva. E quella, indubbiamente, ha portato però a un cambio di paradigma. Non concordo con i sostenitori delle teorie anticolonialiste, secondo cui Israele sia dalla sua Fondazione un fenomeno intrinsecamente malvagio: ma dal ‘67, indubbiamente, ci si è spostati verso un'idea di occupazione illegale e controllo di fatto che hanno fatto perdere di legittimità alla causa israeliana fuori dai suoi confini, quelli delle “green lines” (le linee verdi poste inizialmente come provvisorie) della tregua alla fine degli anni Quaranta.

Nei trent’anni di tira e molla fino a quest’ultimo ventennio, Hamas ha messo a punto la sua strategia terrorista. Esplosioni, attentati, omicidi casuali, i civili fanno parte di una guerra che ai nostri occhi sembra ingiusta, ma per loro ha carattere religioso. Un hadith del profeta dice: “Alla fine dei tempi, resteranno sulla terra un solo musulmano e un solo ebreo: quest’ultimo si nasconderà dietro una pietra, o un albero, che inizierà a parlare e dirà ‘O musulmano, c’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo’” (per verificarne l’autenticità si può leggere Gilles Kepel). Gli attentati di Hamas, l’Intifada di al-Aqsa (termine che da due anni, tra l’altro, si evoca), sono così formidabili che divennero la base per l’attentato dell’11 settembre, “la doppia razzia benedetta”. Nel frattempo la destra israeliana acquista consenso, anche l'estrema destra viene rivalutata in seno a coalizioni sempre più forti ma costrette a pendere dal lato degli estremisti. Netanyahu, un “incompente” (giudizio del più importante storico israeliano vivente, Benny Morris) ha permesso che il Qatar continuasse a finanziare Hamas per alimentare la frattura dell’establishment politico palestinese.
Poi c’è stata la finta liberazione di Gaza nel 2005 (finta, perché il controllo è rimasto a Israele), la Seconda intifada, tutto ciò che sappiamo. Intanto in Cisgiordania si continua con operazioni di occupazione che, di fatto, violavano lo spirito degli accordi proposti negli anni Duemila (la domanda da porsi è: non era davvero possibile per Israele, comunque, dare “l’esempio” e lasciare comunque quei territori, come promesso, a prescindere dai patti?). Poi l'inasprimento del conflitto una decina di anni fa, tutto a premessa di quello che Jacques Attali, parlando del “suicidio di Israele”, aveva previsto qualche mese prima: l’attacco del 7 ottobre, il più grave pogrom antiebraico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le responsabilità di Hamas e dei Paesi arabi, che per altro mai hanno accolto o sostenuto i civili palestinesi, sono evidenti. Quelle di Israele, mi sembra, pure. Poi ci sono stati due anni di guerre, con pochissime informazioni che non siano state filtrate dalle autorità di Hamas. In guerra, come ricorda March Bloch, l’informazione è piena di “false notizie”, o addirittura l’informazione stessa è falsa. A Gaza, in più, Israele ha impedito l’ingresso di qualsiasi giornalista, mentre le emittenti televisive internazionali, come la Bbc, si sono spesso affidate a cronisti chiaramente di parte se non chiaramente affiliati con Hamas. Nel frattempo Israele ha ucciso, oltre agli affiliati a Hamas, anche giornalisti liberi, o schiacciati tra due potenze nemiche della libertà di informazione, e cioè Hamas e il governo Netanyahu.

Ora, però, si è di fronte a un “paesaggio dantesco”, come lo ha definito lo storico francese Jean-Pierre Filieu, uno dei pochi ad aver ottenuto i permessi per entrare a Gaza, lo stesso che riconosce apertamente le responsabilità tanto di Israele quanto di Hamas, di cui dice: “Hamas continua a anteporre gli interessi del suo partito a quelli di una popolazione disperata. Non c'è dubbio che il giudizio della storia sarà schiacciante per gli islamisti palestinesi”. Ed è in questo paesaggio che ci muoviamo, quello che ha portato Israele ha distruggere la quasi totalità degli edifici, comprese case, scuole e ospedali, della Striscia e che ora spinge Netanyahu alla missione finale, l’occupazione di Gaza con l’esercito. Gaza brucia, dicono i ministri israeliani, e nessuno si fermerà. La storia è complicata, le ragioni della violenza sono sempre contraddittorie, voraci, autofaghe, si delegittimano da sé, per via degli interessi di chi è al potere da entrambe le parti, di chi ha sacrificato i popoli, di chi non ha cercato la pace. Ma ora, nel momento della devastazione suprema, dell’annichilimento, della pulizia etnica (certa) e, forse, del genocidio, la domanda non è neanche più: cosa fare. Ma come sperare? E, prendendo sul serio le parole di Kant, essere più radicali e chiedersi: è ancora possibile sperare?
