O sono supereroi o sono morti. Da qualche anno, Hollywood sembra oramai avere le idee molto chiare su cosa sbrigliare per invertire la diaspora del pubblico dalle sale. Così, per esempio, attinge dai Marvel comics personaggi che per la casalinga di Voghera saranno pure grandissimi signorini nessuno, ma che per i fumettari (e ce ne sono parecchi) risultano sempre un ottimo motivo per strapparsi le mutande. La seconda opzione percorribile, dall'immeritatissimo successo di Bohemian Rhapsody (2018) in poi, è quella di accanirsi nel racconto, ora mesto, ora fin troppo euferico ed educolcarante, di cantanti famosi deceduti male e, possibilmente, anzitempo. Whitney - Una voce diventata leggenda è l'ultimo nato nella covata di questi ferali biopic. Non il peggiore nel suo genere, ma nemmeno il tributo che Houston avrebbe meritato. Forse anche perché il film racconta la sua vita con la stessa bramosia di profumo di lavanda che ha la Rai quando narra le gesta dei santi interpretati da Beppe Fiorello. Finirà, prima o poi, la piaga della necrofilia cinematografica in musica? Per il momento, purtroppo, potrebbe ancora essere un fine pena mai.
Edulcorante. Il peggior difetto del biopic su Whitney Houston è la sua ostinazione nel voler raccontare una agiografia della grande star del tutto privata dalle macchie che pur ci sono state, sbattute in pubblica piazza. Gioiosamente bisessuale, anche se la pellicola ce la racconta lesbica per trend, la voce di I will always love you, intratteneva fin da prima della fama una relazione con la donna che sarebbe diventata poi la sua "direttrice creativa" e assistente personale per tutta la vita, Robyn Crawford. Parallelamente, non disdegnava i maschietti. Pur essendo cresciuta in una famiglia "Dio, America e famiglia", quando incontra (e sposa) il cantante Bobby Brown, all'epoca famosissimo, non incede verso l'altare con lo spirito del condannato a morte verso il boia, anzi. I due avranno, però, un matrimonio sciagurato tempestato da abusi di droga e botte da orbi. Era lui a picchiare lei ed è più volte finito alla sbarra per questo, con gravi sentenze di colpevolezza sulla collottola.
Di tutto questo, però, il film non parla: per il primo tempo e oltre vediamo Whitney (Naomi Ackie), cantare prodigiosamente, ascoltare demo di cassette a nastro, scegliere quelle che più l'aggradano e precipitarsi in sala d'incisione. Live pazzeschi (fortunatamente con la voce originale dell'artista) in alternanza. Un po' noiosetto? Assolutamente sì. La dipendenza da sostanze stupafacenti arriva, infatti, improvvisamente e senza un perché, quando la situazione è divenuta oramai già insostenibile, tanto da costringerla ad andare in rehab. Leggenda narra che Houston fosse diventata tossicodipendente per via del marito Bobby, già strafatto h 24 di suo. "Non ci siamo aiutati, ma non è colpa tua", lo assolve Whitney nel film. Considerata anche l'omertà riguardo alle violenze (sentenziate, lo ribadiamo) che il consorte perpetrava ai danni della celebre moglie, l'idea è che tutte queste omissioni si debbano a un semplice fatto: lui è ancora in vita, lei no.
La protagonista scelta per il ruolo, Naomi Ackie, sarebbe un'ottima concorrente per Tale e Quale Show. Non che non sia brava, ci sono fenomeni anche alla corte Rai di Carlo Conti, ma ha 30 anni e vederla recitare nei panni di una 22enne, nonostante gli sforzi di trucco e parrucco, è un attentanto a mano armata alla sospensione dell'incredulità. Per carità, abbiamo subito senza fiatare i dentoni posticci di Rami Malek, addirittura Premio Oscar per il miracolatissimo Bohemian Rhapsody, quindi qui, con questa Whitney, siamo comparativamente davanti a un prodigio. Col passare degli anni, comunque, la somiglianza si fa più calzante. La storia, però, continua a sembrare una bel macaron glassato fuffa.
Chi ha congegnato il film, ha voluto concentrarsi sulla vita di Whitney, volendo rendere omaggio a quella senza avvoltoiarne le ombre. Vediamo, certo, il padre che le fa da "manager" rubandole vagonate di milioni e che, non pago, ha la faccia di pretenderne altri 100 direttamente dal letto di morte. Ma nel biopic Whitney è solo una voce, anzi, la voce. Non un personaggio vero e proprio, tridimensionale. Al netto di qualche battuta riuscita come: "Io non so come si canta da bianchi o da neri. Io so come si canta".
Per evidente scelta stilistica, il film glissa anche sulla morte, mostrandoci la cantante all'apice del proprio ritrovato splendore con una perfomance live da brividi, dopo anni travagliati (e appena accennati), quando tutti credevano che non sarebbe più stata in grado di cantare "come una volta" a causa dei troppi eccessi. Poi, poco prima dei titoli di coda, il finale scritto nero su bianco: lei che si spegne strafatta in vasca nel 2012, la figlia Bobbi Kristina che la segue, si sospetta per lo stesso motivo, solo tre anni dopo. Ma il ricordo della sua voce e delle milionate di copie vendute, il fatto che abbia superato addirittura i Beatles in classifica, rimarranno per sempre. Amen.
Il trend di trasporre sul grande schermo le vite delle star della musica è, ce ne fosse ancora bisogno, ennesima testimonianza del crollo di idee in quel di Hollywood che oramai sa proporre solo biopic, il più delle volte ferali o sciapi, in alternativa a supereroi, live action e remake di titoli andati alla grande nei bei tempi che furono. Un peccato. Soprattutto perché, immaginaniamo, là fuori ci siano sceneggiature valide. Valide e in grado di lasciar riposare in pace chi non c'è più e nemmeno può difendersi dal ritratto delineato in mondial piazza.
Dopo il pur premiatissimo insulto a Freddie Mercury che è stato Bohemian Rhapsody, in tanti hanno provato a bissarne il successo. Riuscendo però soltanto a raggiungerne il fetido livello di qualità. Unica zebra a pois, Elvis di Baz Luhrmann. Lunghetto, ma tra i migliori film usciti nel 2022. Il più furbo di tutti, però, è stato Sir Elton John. Fiutando la malparata, per scongiurare eventuali danni postumi, il biopic se l'è fatto da solo occupandosi della produzione (ossia mettendoci i dobloni) e scegliendo personalmente l'attore che lo avrebbe interpretato (Taron Egerton), nonché tenendo ben d'occhio la sceneggiatura, rigo per rigo. Il risultato fu Rocketman (2019), un'opera davvero meravigliosa, trascinante, senza sconti. Il ritratto gioviale, vivace e sfrenato che Freddie Mercury avrebbe meritato. Imperdibile.
Non che noi in Italia ci stiamo dimostrando in grado di fare di meglio, comunque. Coi nostri mesti documentari Prime Video sulle vite di cantantucoli o medio-grandi star dello showbiz melodico tricolore. Stortura per stortura, a questo punto, sfatiamo anche il mito della musica che in tv "non funziona" e ripigliamoci il Festivalbar. Di cantanti piangenti o prematuramente scomparsi, non se ne può più. Lo dicono anche i numeri: per quanto riguarda Whitney - Una voce diventata leggenda, a fronte di 45 milioni di budget, il film ne ha incassati 4,8 in patria e, per il momento, appena 180mila e spicci nelle sale nostrane. Il necrologio del necrologio. Sarà mica ora di cambiare musica?