I media, i social network, i diffusori di fake news. Ma il racconto della guerra nasce prima di tutto da chi ha un ascoltatore ideale da convincere e tenta di farlo con il proprio stile, con i propri artifici retorici: a chi parlano e cosa dicono Zelensky, Putin e Biden? Abbiamo chiesto a Paolo Iabichino, scrittore pubblicitario, direttore creativo, fondatore dell’Osservatorio Civic Brands con Ipsos Italia di aiutarci a comprenderli. Iabichino, che si occupa di creatività e nuovi linguaggi nella costruzione di contenuti fuori e dentro la Rete, ha recentemente pubblicato per Hoepli “#Ibridocene. La Nuova Era del tempo sospeso”, che fornisce alcune chiavi di lettura su un tempo difficile da decifrare e definire. In questo caso, a prescindere dal merito del conflitto, il focus è sull’aspetto comunicativo così come viene sfruttato dall’Ucraina, dalla Russia e dagli Stati Uniti, laddove “ognuno sceglie il proprio target, perché di questo stiamo parlando: non un target militare, ma un target di marketing”. Perché sì, il meccanismo è il medesimo: è proprio così che funziona il racconto di una guerra.
Cosa comunica Zelensky con la sua frequente presenza mediatica?
La sua priorità non è la comunicazione di uno stato di fatto - peraltro inoppugnabile: c’è un aggressore e un aggredito - ma sta comunicando un ruolo e va in ipernarrazione. Indugia in una serie di retoriche che conosce perfettamente perché viene dal mondo del mainstream, conosce le dinamiche della comunicazione social e sa bene quanto la pornografia emotiva sia un driver. Il suo target è nel pubblico occidentale e lui gioca questa partita con grande consapevolezza.
Ipernarrazione?
Dal punto di vista comunicativo riconosco alcuni meccanismi ipernarrativi che fanno leva sul consenso facile: le visite agli ospedali con le telecamere puntate, gli iPad regalati ai bambini feriti, le medaglie al valore e le onorificenze consegnate ai militari. Zelensky questi meccanismi li ha imparati dalla televisione e dalle piattaforme sociali e li utilizza, giusto o sbagliato che sia, nella modalità ibrida di una guerra contemporanea che non può essere combattuta solo sul terreno con le armi, ma anche con la comunicazione e nel digitale con gli attacchi cibernetici. È la prima guerra che noi viviamo in questo modo.
Qual è invece il target dei russi?
L’altro blocco ha scelto il proprio target all’interno della propria comunità e nella comunità dei paesi amici. Non si sforza minimamente di convincere l’Occidente della bontà di questo conflitto, ammesso che si possa mai parlare di guerre giuste.
Peraltro non si può parlare di guerra in Russia…
Lo sforzo semantico che fanno Putin e il suo entourage per non parlare di guerra a noi può fare sorridere, ma il fatto che loro omettano scientemente in ogni intervento di parlare di guerra, che è una parola tabù, e omettano addirittura di celebrare i funerali dei caduti perché sarebbe un colpo difficile da gestire per il consenso interno, è un meccanismo che noi, abituati alle democrazie e alla libertà di informazione, non siamo abituati a comprendere.
Possibile che non nominare la guerra in Russia faccia sì che questa non esista nell’immaginario collettivo?
Certo che no, quello che stanno facendo i russi è uno sforzo puerile, ma terrei distinte le due audience: quella occidentale e quella intorno a Putin e ai suoi yes man. A noi sembra puerile, ma in patria sono tantissimi i russi che pensano che il conflitto sia legittimo. L’ottimo lavoro di alcuni giornalisti ci ha mostrato anche come molti russi siano portati a non credere a quello che sta accadendo, a pensare che gli ucraini stiano esagerando: vedere una madre non crede alle parole della figlia in fuga dall’Ucraina fa capire quanto la comunicazione in Russia sia governata dalla tv e dalle piattaforme sociali proprietarie e quanto ciò faccia effetto sull’opinione pubblica.
L’Occidente pare accorgersene adesso…
Pensate all’uccisione di Anna Politkovskaja: ci sono crimini che vengono perpetrati da anni, e adesso è un po’ tardi per reagire, per censurare e stigmatizzare questi comportamenti dopo che a lungo, in nome dei nostri interessi economici, abbiamo preferito fare buon viso a cattiva sorte. Adesso appunto paghiamo le conseguenze della nostra voracità economica. Questo ci rende in qualche modo complici.
Nei giorni scorsi la trasmissione “Zona bianca” ha intervistato il ministro degli esteri russo Lavrov.
Quell’intervista non poteva andare in onda su nessun altro canale a parte Rete 4, una rete che ritorna sulla scena in maniera prepotente ma non fa che confermare una modalità di giornalismo che ha rinunciato all’informazione per privilegiare l’intrattenimento.
In che senso?
Lavrov viene trattato come un super ospite da share e non viene realmente intervistato, è protagonista di un monologo con un giornalista che proviene da una scuderia, quella della tv commerciale, che non si è mai particolarmente preoccupata di portare al pubblico un’informazione neutrale. Cosa ci potevamo aspettare? Alla fine gli viene augurato addirittura buon lavoro…
E Biden?
Biden sta giocando una partita chiave per la sua politica: dopo Trump, gli Stati Uniti avevano la necessità oggettiva di ritornare sulla scena internazionale con il peso e la credibilità che erano state riconosciute loro durante la presidenza Obama e che Trump aveva sputtanato. Biden però si è ripreso l’aspetto più muscolare e tossico della politica americana. Faccio fatica a non pensare ipoteticamente a cosa sarebbe stata questa guerra con un Obama alla presidenza, a come avrebbe gestito l’aspetto diplomatico ma anche quello militare.
Qual è il target del presidente statunitense?
Biden doveva recuperare l’attenzione dopo la meschina uscita dall’Afghanistan. Ciò che ha fatto Putin gli ha permesso di guadagnare qualche punto nella partita di cui sopra, quella del ritorno sulla scena internazionale, ma anche sul fronte interno, perché gli Stati Uniti sanno benissimo quanto una guerra riesca a cementare e coalizzare i repubblicani e i democratici, soprattutto nel caso di un’ingiustizia palese. Guardate però gli interventi di Biden, la sua postura e i suoi outfit, sempre molto formali: la maggior parte delle volte spuntano i Ray-ban d’ordinanza dell’aviazione americana, quelli a goccia dei top gun.
Un dettaglio?
I Ray-ban di Biden sono come il tavolone bianco di Putin: si tratta di dispositivi mediatici.
Comunicare senza parlare.
Tutti e tre, Zelensky, Putin e Biden, conoscono la forza delle immagini e tutti scelgono dispositivi narrativi molto precisi dal punto di vista visuale, fregi che si portano dietro un portato simbolico molto forte. Bastano quelle immagini per capire la posizione di Putin, il cui tavolo serve a mantenere le distanze, mentre gli sfondi di Zelensky consentono di leggere un metamessaggio che dice sono qui, non ho paura, e significa resistenza, e bastano quegli occhiali scuri per capire cosa Biden sta dicendo al mondo.