Giustizialisti. Impossibile qualificare diversamente i componenti del clan Abbas. Shabbar Abbas, il padre, Danish Hasnain, lo zio, e i cugini, Ikram Ijaz e Nomanullhaq Nomanullhaq. In serie tutti, nessuno escluso, sono stati i boia di Saman. Bruciata sul rogo, come la peggiore delle eretiche. Aveva scelto l’Occidente e tutte le sue tradizioni. Per questo è stata giudicata dal peggiore dei tribunali inquisitori: quello familiare. Saman però non era una strega e neppure un’eretica. Aveva solamente scelto la sua felicità. Una felicità che non si conciliava nemmeno lontanamente con l’idea condivisa dagli Abbas. Ma mentre in aula si continua a discutere su chi abbia materialmente strozzato la giovane pakistana, non ci si è soffermati neppure per un attimo ad inquadrare Nazia Shaheen in una posizione diversa da quella di semplice latitante. Non fraintendetemi. Anche lei è imputata insieme agli altri per omicidio volontario e soppressione di cadavere. Ma rispetto agli altri ha giocato anche un ruolo criminale. Tanto quanto madre che quanto donna. “Mentre facevano i piani, io stavo sulle scale ad ascoltare, non tutto ma quasi. Ho sentito una volta mio padre che parlava di scavare”. Una frase agghiacciante pronunciata ieri dal fratellino di Saman che è stato chiamato a ricostruire le ultime ore di vita della sorella maggiore. Il ragazzo, oggi maggiorenne, alla domanda su chi facesse i piani, ha risposto: “Noman, papà, mamma, Danish e Ikram”.
Da profiler non posso che dirvi che dal punto di vista criminale è stata proprio Nazia la regista di questo delitto d’onore. Senza esitazione, di questo bisogna parlare. Senza il timore di ledere la sensibilità di nessuno e per impedire che fuori ci siano altre Saman. Ne potremmo discutere per ore, ma certamente la morte di quest’ultima non può essere catalogata come femminicidio perché lei non ha perso la vita per mano di un fidanzato né di un ex. Al contrario, la sua testa è saltata per volere di persone sangue del suo stesso sangue. Per intenderci, concedo il beneficio del dubbio su quelle religiose, visto che sul punto è aperta la discussione interpretativa del Corano. La matrice culturale resta però innegabile. Dicevo, si parla sempre degli uomini come protagonisti della vicenda. Padre, zio, fratello e cugini. Nessuna parola invece sulla madre, se non come coimputata e grande assente al processo. Dimenticando che è lei ad aver avuto un ruolo cruciale nell’agguato teso alla figlia. Sono infatti partiti dal suo cellulare tutti quei messaggi per farla rientrare dalla comunità. E Saman, fiduciosa di poter finalmente essere accettata per la sua persona, ci ha creduto. O ha voluto farlo. Non sapendo, ma forse immaginando, che quel viaggio sarebbe stato di non ritorno. La realtà da accettare è quindi ancora più dura di quel che può sembrare. “Mia mamma ha accompagnato mia sorella fino a un certo punto, poi è tornata indietro […] Guardava tutta la cosa che è successa, mentre mio zio prendeva mia sorella per il collo, trascinandola verso la morte, dentro la serra. Lei guardava... guardava quello che stava succedendo”.
Capite cosa intendo? È stata Nazia la prima del clan Abbas a rivendicare la scelta di lavare con il sangue l’onore leso dalla figlia. Lo ha fatto perché come in tutti i delitti d’onore è sotto il burqa che ci si batte per tramandare gli stereotipi religiosi e culturali. Anche quelli, e forse a maggior ragione, che vanno contro l’essere donna. Donne forse incapaci di accettare che le figlie possano ribellarsi a quegli stili di vita e a quei precetti culturali di cui loro stesse sono state vittime. È difficilmente comprensibile, ma agli occhi di queste mamme è del tutto intollerabile che le proprie figlie possano vivere lontane, secondo canoni più favorevoli ed in condizioni decisamente migliori delle proprie. Nazia era invidiosa del futuro che Saman voleva costruirsi? Molto probabile. Perché a differenza sua, la figlia avrebbe sposato l’uomo che amava, non quello scelto dalla famiglia. Non un cugino o un lontano parente. Avrebbe conquistato tutte quelle libertà che per noi occidentali rappresentano il quotidiano. La madre della giovane pachistana non poteva accettarlo ed allora si è presa la scena diventando l’esca per portare a compimento il piano criminale. Al resto, ci hanno pensato gli altri. Saman Abbas è stata uccisa in maniera barbara. L’autopsia ha infatti rivelato una frattura dell’osso ioide. Un osso che quando si è giovani è difficilissimo da spezzare perché rivestito da un maggior quantitativo di cartilagine. Tradotto in termini scientifici, le è stata inflitta una delle più atroci tra le sofferenze. Massacrata perché voleva essere libera di scegliere. E lo è stata fino alla fine perché mai si è piegata ai dettami della sua famiglia. Forse non lo saprà mai, ma per come ha vissuto è morta da figlia del mondo occidentale.