Che meraviglia Natalia Aspesi, che bellezza la sua intervista a Il Foglio. A volte mi sembra una di quelle testugginine carine carine, chiuse dentro il loro carapacino, che tu dici: “ma che testugginina carina carina”, e lei ti dà il morsettino piccino picciò. L’ho letta sempre con più simpatia della sua omologa sul Corriere della Sera, Lina Sotis, che aveva quella cattiveria strutturata e snob (sine nobilitate, molto parvenu), mentre la cattiveria della Aspesi è stata sempre più casual, come i suoi hot pants.
“Oggi mi pare vada di moda il pettinare ogni cosa per il verso giusto. Io, se ho avuto un po’ di successo nel giornalismo, è stato perché esercitavo la critica maligna, e facevo ridere. Ai miei tempi questo ti faceva persino diventare ricco”, dice. E a me viene in mente il video di Donald Trump che su un caccia spara letame sulla folla che manifesta contro di lui, o la notizia, data da Marco Imarisio sul Corriere, che in Russia hanno iniziato a perculare il presidente americano a suon di barzellette e sfottò. Critica maligna, dice la Aspesi.
E fa anche una bella riflessione sul ruolo delle donne in redazione. E mi verrebbe di farle una domanda, dato che amo la critica maligna e tutte le forme di character assassination (l’unico omicidio legittimo): ma la critica maligna, ai suoi tempi, non era riservata alle donne? Non erano un po’ le “cucine” del quotidiano dove le serve, appunto, “malignavano”? Intendo dire: io sono di quei baroni siciliani che hanno sempre preferito mangiare in cucina, anche quando avrei dovuto presenziare a colazione, ma di solito era appena sveglio e in cucina la conversazione è più interessante.
Le sto parlando proprio della critica maligna come forma più alta di Sapienza. Venga con me, un attimo, nel Teatro Greco di Palazzolo Acreide, lo ha scavato un mio prozio, il barone Gabriele Judica, nel 1824. Visto che bello il Teatro? Bene, mi segua. La porto nel Teatro Privato: il bouleuterion. Vede come è piccolino? Vede come è carino? Sa che ancora oggi ci si chiede a cosa servisse questo teatro piccolino? C’è chi dice che era il teatro dei bambini. C’è chi dice che serviva per le prove. C’è chi dice che ci si riuniva il senato cittadino. Sì, forse lo utilizzavano anche per queste faccende.
Ma nel bouleuterion, quando la Tragedia e la sua funzione catartica atta a spaventare la populace terminavano (il francesismo non è raffinatezza, è che in francese il popolo diventa popolaccio), si accendevano i lumi e andava in scena l’ilarotragedia, la perculata dei disastri che le tragedie avevano messo in scena, popolandola di rincoglioniti totali. Ed era uno spasso. Eh sì, perché l’ilarotragedia, da cui discende la farsa, era considerata una forma più “alta” d’arte.
O ancora meglio: la Commedia era per menti raffinate, la Tragedia per il popolino, ma l’IlaroTragedia era per gli Illuminati. Capisce dove voglio arrivare? La critica maligna che scatena la risata è la più alta forma di scrittura e di narrazione. Perché era confinata nelle cucine, con le cuoche e le camerierine? Sì, so che a quell’epoca esistevano gli inserti satirici, ma stiamo parlando proprio di un altro edificio. La satira abitava a parte. La critica maligna, invece, aveva la sua stanza nel corpo principale del Palazzo, anche se in cucina.
Questo per dire cosa? Che il divertimento (e la realtà) si dovessero nascondere nelle stanze laterali del Potere allora era giustificato in qualche maniera dal linguaggio stesso del Potere. Lo dice Lei, quando Salvatore Merlo le chiede di Enzo Biagi: “Bravo, ma pesante. Faceva sempre il buono, il giusto. Non ne potevo più. È che a quell’epoca c’era un modo di essere giornalisti molto maschile, un po’ sacro. Io non sopportavo la seriosità”.
Ma era anche la seriosità dei politici dell’epoca (e quante volte lo sentiamo dire: “almeno erano statisti”), e c’era il blocco sovietico, e lo Stato era lo Stato, e la moneta era collegata alla Riserva Aurea. Oggi invece è tutto un bordellone. Lasciamo perdere il linguaggio dei nostri politici, tra sbiascicate alla romana, praticità volgare nordica e “piccoli uomini in un grande laghetto”, come ebbe a dire un siciliano, e concentriamoci sulla politica internazionale. Apriamo le finestre.
Uno che scarica letame, uno che lo sfotte, un altro in guerra che si mette in posa su Vogue, e poi quel “give me the weapons, give me the weapons”, detto ridendo da Trump a Netanyahu. Ecco, quello che non capisco è come mai se il mondo va in questa direzione, se dei bambini morti si parla con battute da trivio, se la nostra politica canta Vasco Rossi durante le conferenze stampa istituzionali, ecco: perché ancora il linguaggio del Palazzo Giornalistico è noioso, flat, lineare, duepalloso, illegibile?
Perché la critica maligna ha fatto solo una breve apparizione nelle cucine per poi essere del tutto estromessa? Persino l’Amaca di Michele Serra mi sembra appuntita come un coltello per il burro. Dice: no, i giornali della Destra parlano come parlavamo noi allora nelle cucine.
Ecco, è questa la contraddizione che non capisco. Perché la Destra si è appropriata della meravigliosa critica maligna (e infatti vince le elezioni), mentre le persone colte sono diventate noiose e vogliono tutte sedere al tavolo della colazione, quando è il posto più noioso dove accomodarsi?
Le faccio una domanda, posso? È una vera domanda perché non ne ho contezza. Ma quando c’erano le giornaliste innamorate di Eugenio Scalfari che passeggiavano dietro la sua porta, e quando venivano mandate a Milano per svernare e farsi passare la delusione d’amore per essere state scaricate, Lei lo scrisse mai? La tirò fuori quella meravigliosa testolina dal carapacino per dare un morso piccino picciò? Perché se no allora mi spiego perché ha vinto la seriosità.
Con tanta, tanta stima e affetto.