Quello che ricordo era che già da un po’ di tempo vestivo con le camicie di flanella a quadri. Quella sera avevo sopra anche un cardigan marrone di lana coi buchi delle tarme e le toppe ai gomiti. Sotto, i jeans che strusciavano per terra e un paio di scarpe in camoscio e pelle dalla punta a papera — credo che adesso si chiamino barefoot o una cosa del genere, ma io le avevo trovate a casa, erano di mio padre, e lui non le metteva più.
Noi vestivamo a metà tra i film horror anni ’80 e i Nirvana, e poi ci dissero grunge.
Ok, grunge.
Ero venuto fuori dalla saletta dove c’era un trio punk rock, due ragazze e un trav che si esibivano in topless con i copricapezzoli (anche il trav). Ero all’angolo del bancone, il posto di chi beve molto e salta la fila. Parlavo con una ragazza che voleva invitarmi a casa sua perché il fidanzato era partito. Io, in quel periodo, ce l’avevo col noise: mi sembrava una masturbazione un po’ isterica. Era anche il periodo dei primi rapporti sadomaso e mi sentivo, non so, grunge-riflessivo e profondo.
Cercavo di farmi spiegare quella voglia di farsi prendere a ceffoni, visto che aveva un fidanzato da cui farsi frustare. Ma la verità è che era inverno e a Catania d’inverno non portano i sandali, perciò non sapevo come aveva i piedi. E se io non vedo i piedi, non vado. Ho avuto brutte sorprese, in vita mia. Credo di aver detto questo pensiero ad alta voce, perché lei mise il piede sul bancone: l’alluce fasciato con la garza. A quel punto mi fu chiaro che era meglio redimerla, quella, invece di scoparla.
E alzai lo sguardo.
Parentesi. Non ricordavo fino a due minuti fa il nome della band, ma mi piaceva. Con me c’era mio cugino Raffaele Gulisano — anche il bassista degli Uzeda, che registravano con Steve Albini, lo stesso di In Utero dei Nirvana, per la sua etichetta Touch & Go di Chicago, il cui logo era copiato da una marca di caffè catanese, Torrisi Caffè.
Raffaele mi fece le foto col gruppo, in bianco e nero. Eravamo bellissimi.
Così gli ho scritto un uozzapp, ma neanche lui si ricordava — ci stiamo facendo vecchi, anche se abbiamo una band insieme, molto teorica, e a questo punto credo dovremo chiamarci Le Prostate Volanti.
Poi, all’improvviso, mi ha scritto:
Le Demolition Doll Rods. 1998. Tutto tornava.

E insomma alzo lo sguardo, per distoglierlo da quell’alluce garzoso, e la vidi per la prima volta: MTV.
Sul televisore montato in alto, senza volume. C’erano loro, i Nirvana, che andavano in loop da quando l’anno prima avevano inaugurato, come si dice, “il segnale video”, con il loro Unplugged del 1993.
E c’era quel marchietto, MTV.
Fu allora che lo scoprii.
Ed era tutto un turbine di birra, punk, grunge, copricapezzoli, post-rock, bassi, chitarre, Raffaele, Steve Albini che dormiva per terra, e la ricerca di alluci minuti, pudichi, mentre tutti intorno a me trombavano. E io, per educazione, ci davo.
E adesso MTV Musica chiude.
E io sono ancora vestito uguale.

Chiudono MTV Music, MTV 80s, MTV 90s, Club MTV, MTV Live: buttati nel bidone dello streaming, piccole chiese dove per decenni si officiavano i videoclip e il rito del lancio planetario. Cancellate dalla stessa mano che per anni ha venduto il sogno alcolico — e spesso tossico.
MTV non è stato solo un canale: è stato un centro di gravità, un catalizzatore, una fabbrica di miti. Gli anni ’90 si vivono come un’epidemia, e MTV è stato il vettore. Nessuno, dico nessuno, ricorda gli anni ’90 prima di MTV. È come se non esistessero. Come se gli ’80 fossero durati diciassette anni.
Diciotto per me. Fino a quell’alluce immenso, parabola satellitare che mandava in onda i Radiohead, i Prodigy, i Massive Attack, e tanti giovanetti tossici, tutti uguali, magrini, molto come se lo Zoo si fosse trasferito da Berlino ai Docks. Fu l’estetica Trainspotting, commerciale per noi, perché MTV non aveva un’anima: le aveva tutte. Le possedeva, le sfruttava, le ammazzava. Era una cazzo di siringona, quella MTV.
Lo spettacolo era simultaneamente alto e sporco. VJ come eminenze naziste adorate dalle folle. L’esasperazione acida del cantante di balera illuminato dagli effetti speciali. E in quel paesaggio iper-colorato, la letteratura e la moda funzionavano da chierichetti. Mark Leyner con la sua prosa anfetaminica, Chuck Palahniuk con la rabbia da bar, Bret Easton Ellis che fotografava una società che si consuma nel lusso e nell’apatia, Nick Hornby con l’ossessione per la canzone perfetta. Libri che si scambiavano sotto i palchi e nelle toilette dei pub.

Ci aggiravamo cercando di esprimere quello che non volevamo esprimere. Era tutto un cortocircuito. Eravamo giovani e in fondo non capivamo un cazzo, e MTV era l’amo perfetta con l’esca perfetta per noi pescioloni e per le pescioline con le felpe oversize e i Diesel che sapevano di rivoluzione industriale già diventata archeologia urbana. La contraddizione era la regola: vestire come se il mondo stesse finendo, ma con designer che ti vendevano l’Apocalisse prêt-à-porter. Come tutte le gioventù: bellissime e oscene. Ancora, ma anche basta.
Bella la gioventù, ma non ci vivrei.
Mi mancano le cose di quell’epoca, non mi manco io.
Mi mancano i modem dial-up, Napster come un’isola di pirati, lo skate, il vero punk, l’adrenalina digitale sporca, i cavi saldati col piombo fuso. Mi mancano le VHS cyberpunk, le atmosfere piovose, i cappotti di pelle bagnati, i divani in stile impero foderati di vinile, il sadomaso romantico con i principi azzurri che ti legavano al soffitto come in una favola coi lividi.
Rossetti e ombretti sbavati dal sudore dei rave e dell’MDMA, come promesse di volti stropicciati.
E invece adesso è tutto silente, Wi-Fi, hipsteroso, incuffiato, leggiadro fino alla trasparenza. Non c’è carne. Non c’è noise.

Con MTV si spegne l’Occidente, quello in cui non sai da che parte stare, se in uno scantinato di idee gomito a gomito con la carne o sparando a palla nu-folk tra gli ulivi e i carrubi mentre intorno a te ci sono solo vento e cicale. E alberi. Adesso è come se non ci fosse scelta: carrubi a vita.
State diventando bianchi come lenzuoli. Come le pareti intonacate che hanno sostituito le carte da parati scrostate.
Per chi ha vissuto quell’epoca, voi siete fantasmi silenziosi.
Abitiamo i ricordi. Continuiamo a fare casino.
Anche se non ci potete sentire.
