Una questione di delicatezza, come togliere le lische al pesce con una pinza tenuta con due dita. Le interviste di Aldo Cazzullo sono questa cosa qui, musicali, orecchiabili, delicate, gentili. Le risposte di Vittorio Sgarbi, stavolta, ma ormai da un po’ di tempo a dire il vero, sono puntuali e laconiche, dirette ma deboli. E in un momento in cui la figlia chiede una tutela perché il padre sarebbe incapace di intendere di volere, sentire la versione di Sgarbi attraverso l’intervista studiata da Cazzullo è un atto di generosità da parte di entrambi, giornalista e critico, che si accordano su tonalità lievi, che lasciano trasparire in controluce almeno una verità, quella dell’uomo fragile, lontano dai tempi dei “capra”, degli “stronzi”. Ora di stronzo c’è solo un tempo che lo vede dimissionario dalla vita, dalla fame e, forse, dall’affetto. Tranne quello di Sabrina e di sua sorella. Chi lo ha spremuto invece non si fa più vedere. Il suo vecchio partito, Forza Italia, il nuovo partito, Fratelli d’Italia. La destra che lui non ha mai tradito, come dimostrano le elezioni regionali nelle Marche; si è presentato alle urne, ha votato per Francesco Acquaroli, è tornato a visitare la “sua” San Severino, “una delle città più belle d’Italia e del mondo”.

Un uomo come Sgarbi lo capisci ora, quando a Cazzullo risponde: “Io ho sentito che alla sofferenza dovevo resistere”. Una sofferenza che lo ha fatto sentire vicino a Caravaggio e ad Artemisia Gentileschi. Una sofferenza che, tuttavia, non si convertirà in arte. Quando Cazzullo gli chiede se ci scriverà un libro risponde: “Spero di dimenticarlo”. E forse proprio perché, come ha ammesso, di morire, nonostante abbia realmente rischiato, non ha paura. E dunque che farsene di quel rovescio della morte che è la letteratura, quell’esorcismo prima di tutto privato che è la parola scritta. Il dolore, se scritto, non è più tuo. Ma Sgarbi lo sa, il dolore, per dimenticarlo, va tenuto stretto. Si dimentica solo ciò che si ha. Si sovrascrivono i ricordi. Lo si spera, appunto. La sofferenza, comunque, ha cause che Sgarbi prova a individuare. Pochissimo la malattia, forse un po’ i problemi penali, quasi certamente il “tradimento” della sua parte politica, o quantomeno la parte politica che del personaggio Sgarbi si è appropriata in ogni modo, in ogni forma. Lo dice chiaramente. “Ritengo di aver subìto un’ingiustizia assoluta. Che mi è pesata moltissimo, e mi è stata riconosciuta da pochi”. Il riferimento è alle dimissioni forzate da sottosegretario alla Cultura. Una mossa che di politico aveva molto, se per politico si intende pianificazione e contrattazione, cose su cui Sgarbi sembra non essere mai stato così bravo. Contrattare, in fondo, è risolvere un problema pratico. Sgarbi, da simbolo, da totem, da unico (o uno dei pochi) baluardo della cultura di destra, era diventato semplicemente un problema pratico, una lampadina che sfarfallava, una lampadina che rischiava il carcere.

C’è tutta un’altra storia però, che Cazzullo fa emergere come compaiono a terra gli sbuffi della lattuga, un profilo verde speranza, compatto e orientato all’interno, al cuore. Anche in questo caso con una nota di tragedia familiare. La figlia Evelina che ne chiede l’interdizione (“Incomprensibile. Non ho capito perché l’abbia fatto e che cosa voglia”), suo figlio Carlo che si astiene, l’altra figlia, Alba, che lo difende. Poi un ricordo molto preciso, qui tirato fuori grazie a Cazzullo: quello dei suoi genitori e in particolare di sua madre: “Mi avrebbe detto quello che mi diceva Sabrina: di essere forte”. E arriviamo a lei, che insieme a Elisabetta Sgarbi lo ha curato. Non solo farmaci, ma amore, stimoli, e vicinanza. Per questo la sposerà: “Mi ha salvato la vita con il suo amore”. La sposerà a Venezia, nella Chiesa della Madonna dell’Orto: “Per i suoi splendidi quadri. Tintoretto. E un meraviglioso Cima da Conegliano: il Battesimo di Gesù”. E qui la correzione puntuale di Cazzullo, che si pone così, verso la fine di un’intervista perfetta, alla pari del suo interlocutore: “Quello lo conosco. Stupendo. Ma è a San Giovanni in Bragora”. Un dipinto pieno di angeli, gli stessi che, in politica, Sgarbi non ha più. Come non ha più santi. Ma nella vita, quella vera, qualcuno resta. Ed è lì che si annida la salvezza.
