Con lo stop alla vendita delle auto a benzina o diesel entro il 2035 si aprono le porte del futuro a una mobilità esclusivamente ecosostenibile. O così era sembrato. Di certo, quando l’Europarlamento ha votato per questa soluzione più green, qualche giorno fa, non aveva in mente che persino le auto elettriche, considerate la soluzione più ragionevole e plausibile al problema dell’inquinamento dovuto ai mezzi motorizzati, sarebbero finite sotto accusa come inquinanti. Neanche il tempo di arrivare ad avere più bev che auto endotermiche, che già c’è chi critica l’alternativa ai veicoli tradizionali. E non, come si potrebbe pensare, per via di una reticenza verso il cambiamento, ma perché questo cambiamento non sarebbe sufficiente. È il caso del “manifesto” redatto a fronte di un ricerca di alcuni esperti della University of California, afferenti al Climate + Community Project, una delle realtà più importanti (e di peso) degli Stati Uniti d’America (e dunque, come spesso accade, del mondo).
Il titolo è molto chiaro: “Achieving Zero Emissions with More Mobility and Less Mining” (Raggiungere le zero emissioni con più mobilità e meno attività estrattiva). Una ricerca che Federico Rampini ha definito sul Corriere della Sera una vera e propria «dichiarazione di guerra contro l’auto elettrica», a partire dal problema dell’estrazione delle terre rare e della materia alla base di molte componenti dei veicoli con batterie elettriche. Un no deciso, quello degli attivisti, che minerebbe qualsiasi tentativo di compromesso, come la possibilità di aprire attività di estrazione in Svezia, dove sono stati scoperti nuovi giacimenti di terre rare, sicuramente meno inquinanti di quelle portate avanti in Cina, che attualmente la fa da padrone nel mercato della vendita di componenti (e sta, silenziosamente, raggiungendo anche il mercato mondiale della vendita dell’auto direttamente al consumatore). La Cina, inoltre, rimane un partner privilegiato anche da quelle aziende americane che non possono affidarsi a realtà americane, in alcune occasioni bloccate direttamente dal ministero degli Interni Dem, come nel caso della miniera di rame, nickel e cobalto in Minnesota. Un problema che non tocca Paesi come il Nebraska, a guida Repubblicana, che invece considera un dovere patriottico, secondo Rampini, opporsi a una sorta di monopolio cinese della raffinazione delle terre rare.
Il Green Deal di Biden (che dovrebbe incentivare l’acquisto di auto elettriche), sembra non far bene all’economia del Paese ma neanche all’ambiente, dal momento che ci si affida di più alla Cina, senza nessuna possibilità di monitorare l’inquinamento prodotto, che non a realtà a stelle e strisce. Per Rampini «è un perfetto esempio delle contraddizioni di cui siamo prigionieri». Contraddizioni alle quali si aggiunge l’opposizione estrema degli ambientalisti, che non solo denunciano i processi di raffinazione nelle fabbriche cinesi, ma l’intera filiera, anche nel caso in cui le fasi di lavorazione venissero gestite “in casa”, seguendo le regole di una legislazione che del green avrebbe fatto un obiettivo (e, prima, una promessa elettorale).
Nel frattempo, però, il numero di bev vendute è cresciuto e non accenna ad arrestarsi. In Germania, per esempio, le auto elettriche coprono ormai il 25% della produzione (un buon inizio in vista del 2035) e i prezzi dei veicoli elettrici sono sempre più abbordabili, grazie anche al calo dei prezzi della materia prima (e a uno stimolo da parte dei governi che il mercato ha “dovuto” accogliere). In un solo anno la vendita di bev è aumentata del 68%, per un totale di 7,8milioni di veicoli di macchine vendute. Che gli ambientalisti, per non perdere la guerra, debbano accettare un compromesso e perdere (si fa per dire) questa battaglia? Anche perché, l’alternativa (dichiarata anche nello studio) sembra essere una sola: andare a piedi.