Quando il vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai eruttò lo scorso 15 gennaio a largo delle coste di Tonga nell’Oceano Pacifico l’esplosione fu talmente devastante che degli tsunami colpirono la costa del Giappone, del Nord e del Sud America. Ora, secondo analisi svolte su carotaggi effettuati in Groenlandia ed Antartide da parte del Niels Bohr Institute di Copenaghen sappiamo che un’eruzione di magnitudo 7 -che è fra le 10 e 100 volte più forte di quella registrata in gennaio- è una possibilità concreta in questo secolo (1 su 6 precisamente). Tanto per intenderci eruzioni simili nel passato hanno causato repentini cambiamenti climatici ed il collasso di intere civiltà. E quel che è peggio è che, secondo Nature, siamo drammaticamente impreparati a questo evento. Michael Cassidy, Professore associato di vulcanologia all’Università di Birmingham ha rivelato sulla rivista scientifica: “Non c’è alcun tipo di azione coordinata, nessun investimento su larga scala per affrontare gli effetti globali di un’eruzione di questa magnitudo. Questo deve cambiare”. Gli scienziati infatti lamentano che, mentre la NASA ed altre agenzie ricevono centinaia di miliardi di dollari per i piani di “difesa planetaria” -cioè per la prevenzione di impatti di asteroidi- nulla venga fatto per i rischi di catastrofi geologiche, centinaia di volte più probabili. Due secoli fa il vulcano Tambora in Indonesia eruttò una tale quantità di cenere e gas nell’atmosfera che il 1816 fu ricordato come “l’anno senza estate” perché la temperatura media della Terra calò di un grado. Questi effetti sul clima globali causarono estese carestie in Cina, Europa e Nord America, mentre piogge torrenziali ed alluvioni determinarono gravi focolai di colera in India, Russia e tanti altri Paesi asiatici.
Come hanno dimostrato gli eventi recenti, in un mondo sempre più popoloso ed interconnesso, un evento di questa portato, oltre ad uccidere un numero imprecisato di persone, causerebbe la paralisi del commercio globale provocando impennate dei prezzi dei beni di prima necessità oltre che il collasso di intere filiere alimentari. Senza andare troppo lontani nel tempo e nello spazio ci basti ricordare le conseguenze dell’eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll avvenuta nel 2010, che interruppe per qualche tempo la navigazione aerea in Europa. Gli scienziati che si occupano della materia chiedono a gran voce ai governi di tutto il mondo di aumentare i fondi per la pianificazione dei disastri e per il monitoraggio geologico. Infatti, solo il 27% delle eruzioni vulcaniche dal 1950 è stata misurata da sismometri secondo Cassidy, che aggiunge come ci potrebbero essere centinaia di migliaia di vulcani dormienti la cui collocazione ci è ancora ignota. “Secondo noi l’assenza di investimenti, pianificazione e risorse per affrontare queste grandi eruzioni è irresponsabile” dice lo studioso “la discussione deve cominciare ora”. D’altra parte, la necessità di una seria pianificazione in caso di catastrofe è una questiono che ci tocca da vicino. In Italia abbiamo la fortuna di ospitare uno dei tre supervulcani al mondo che in caso di eruzione potrebbero alterare il clima globale, ossia i Campi Flegrei. Questa caldera, dal 2012 nel “livello di allerta giallo”, ha un’estensione di 180/200 Km quadrati per cui, a differenza di ciò che avviene per i vulcani con apparato centrale, l’area di possibili aperture di bocche eruttive è molto ampia ed imprevedibile. Secondo la Protezione Civile “l’unica misura di salvaguardia della popolazione è l’evacuazione”. Più facile a dirsi che a farsi visto che secondo il Piano Nazionale solo le persone residenti nella zona rossa e gialla, quelle cioè che sarebbero sottoposte ad un’immediata evacuazione, sono 1,3 milioni. Centinaia di migliaia di persone che andrebbero radunate nei centri di raccolta e trasportate con “navi, treni o pullman” verso destinazioni sicure. Vista la fortuna che abbiamo in questo periodo un filo di inquietudine sarebbe comprensibile.