Un attentato nei pressi di Mosca, capitale della Russia impegnata in una guerra, quella contro l’Ucraina, che ha terremotato l’ordine internazionale, è una notizia di per sé sconvolgente. Non foss’altro perché colui che ne regge il timone, Vladimir Putin, è un ex agente del servizio segreto sovietico, il famigerato Kgb. Se poi aggiungiamo che il bersaglio era, com’è probabile, il filosofo Aleksandr Dugin, scampato, a quanto pare, per un banale scambio di vettura con la figlia, Darya Dugina, che ne è rimasta vittima, il significato politico non può essere casuale.
Naturalmente, è presto per comporre la trama di eventuali piste investigative. Le ipotesi possibili, tuttavia, stanno già circolando. A parte quelle, prevedibili, già filtrate da parte delle autorità ufficiali russe, o filo-russe, che orientano la responsabilità sul nemico esterno ucraino, va da sé sotto l’egida Usa (come per esempio il presidente del russofono Donetsk, Denis Pushilin, che ha parlato apertamente di “terroristi legati all’Ucraina”), da noi c’è chi non esclude la possibilità che i mandanti siano interni. In quest’ultimo caso, l’attentato farebbe “parte della lotta di potere a Mosca e di una vendetta”, come ha scritto a caldo oggi Andrea Negri, giornalista fra i più esperti di politica internazionale. Potrebbe infatti essere stato un segnale di sangue partorito negli ambienti oltranzisti dei siloviki, i dirigenti degli apparati statali russi, alcuni dei quali legati a Gazprom e alle industrie strategiche, che avendo idee, diciamo, meno anti-occidentali del Capo, hanno fatto le spese della stretta autoritaria perseguita da Putin in questi mesi di conflitto. Oppure di dissidenti fuoriusciti, magari con l'aiuto e l'appoggio di Kiev.
Ora, a meno di non pensare a una clamorosa falla nel sistema di sicurezza dell’occhiuto regime russo, è legittimo pensare che l’obiettivo da colpire doveva essere fattibile, ovvero non troppo coperto dalle maglie protettive del Fsb, l’erede del Kgb. Aleksandr Dugin corrispondeva all’identikit. Dugin, difatti, al contrario di quanto si crede in Occidente, e soprattutto in Italia, non è affatto l’intellettuale di punta del Cremlino. Anzitutto, perché non risultano vi siano mai stati, né in passato né ora, legami diretti fra il pensatore e l’autocrate russo. Del resto, basterebbe conoscere la storia del suo profilo per non avere dubbi in merito. Formatosi negli anni ’80, l’epoca relativamente più libera dalla perestrojka, nelle cerchie di destra radicale dell’eurasiatismo, Dugin nei primi ’90 è all’opposizione del nuovo corso liberale e occidentale, militando nel Partito Nazional-Bolscevico dello scrittore e agitatore Eduard Limonov, da cui poi si staccherà. Successivamente, come ha scritto Luigi Di Biase, reporter buon conoscitore di cose russe, passò “ai comunisti di Zyuganov, al movimento Nuova Russia di Prokhanov e infine nei circoli conservatori vicini al generale Rodionov, che ha guidato per un anno il ministro della Difesa, nel ’96”, lasciato da Dugin quando questi realizzò che “avrebbe dovuto prendere ordini da un governo di civili, e per giunta liberisti”. La notorietà vera se la guadagna nel 1997 con un libro, “Fondamenti di geopolitica”, grazie al quale si avvicina a Evgenij Primakov, primo ministro nell’ultimo scorcio dell’età di Boris Eltsin. È il testo in cui teorizza quello che è rimasto il caposaldo di tutta la sua concezione, l’Eurasia (l’alleanza, a tinte metafisiche, fra l’Europa e l’Asia sotto la guida della Russia).
Durante il ventennio targato Putin, il nostro non ha alcun rilievo politico particolare. In un’intervista allo Spiegel nel 2015, stando allo storico Eugenio Di Rienzo che ne scriveva sul Corriere della Sera di quell’anno, confessò “di non aver mai conosciuto Putin personalmente, di non aver nessuna influenza su di lui, di avergli spesso scritto appelli che non hanno mai ricevuto risposta” e addirittura di “temere per la sua vita” (“Perché Aleksandr Dugin non è ‘l’ideologo di Putin’”, 30 giugno 2015). L’anno prima, nel fatidico 2014, stando a Giovanni Savino, senior lecturer presso l’Istituto di scienze sociali dell’Accademia presidenziale russa dell’economia pubblica e del servizio pubblico, Dugin aveva perso la cattedra di studi sociali all’università moscovita per aver espresso opinioni giudicate eccessivamente “esuberanti” proprio sull’Ucraina. Semmai, come ricordava Di Rienzo, ci fu un riavvicinamento verso la metà degli anni 2000, che tuttavia deve essersi poi via via deteriorato. Al punto che alla fine del 2014, in un’intervista sul sito Lugrar.net, l’intellettuale russo paragonava Putin a “un traditore della patria russa”, e gli augurava di “fare la stessa fine di Gheddafi”.
Molta più importanza Dugin ha acquisito, almeno a livello puramente mediatico, da noi in Italia, complice il suo italiano piuttosto buono, prestandosi spesso e volentieri a interviste a giornali e tv che lo accreditano strumentalmente come “ideologo di Putin”. Specialmente dopo l’affaire giudiziario del 2018 che, sfiorandolo, ha coinvolto l’ex portavoce di Matteo Salvini, Gianluca Savoini, in un caso di presunta malversazione di denaro legato a forniture di gas russo. Non è un mistero, fra l’altro, che Dugin abbia in passato manifestato una sperticata ammirazione per il leader della Lega in versione sovranista, tanto da intervistarlo nel 2016, in visita a Mosca, negli studi di una televisione russa. Una simpatia scemata con il riallineamento di Salvini su posizioni giudicate dal filosofo troppo occidentaliste e filo-americane. Nell’altra sua opera maggiore, “La Quarta Teoria Politica” (2017), un miscuglio di Martin Heidegger e Julius Evola in salsa eurasiatica, Dugin propugna un interessante superamento dialettico, salvando cioè le parti valide e rigettando quelle caduche, di liberalismo, comunismo e fascismo, tenendo tuttavia sempre come faro la “Russia eterna”. Una Russia che è solo a metà difesa dal “Putin solare” che “rompe con la postmodernità occidentale” ed è “contro la globalizzazione”, mentre viene tradita dal “Putin lunare” (sic), che “scende a compromessi con l’Occidente, il WTO, Davos, l'élite liberale atlantista”. Va detto che Putin, dal canto suo, ha esplicitato negli anni un proprio pantheon ufficiale di riferimenti intellettuali molto più solidamente russocentrico e meno pindarico, ignorando totalmente le elucubrazioni duginiane su misticheggianti “Templari del proletariato”, su “Soggetti Radicali” descritti come “angeli distruttori” o su presunte nuove scienze, come la tal “Noomachìa”, che illuminerebbero le menti riguardo lo scontro in atto fra una “Grande Madre”, femminista e democratica, e la sempiterna “Tradizione” indoeuropea.
Rimane sullo sfondo l’interrogativo: perché voler uccidere Aleksandr Dugin? Azzardando una spiegazione, il motivo può essere ricercato nel fatto che il cosiddetto “ideologo di Putin” dalla folta barba esoterica sia adottabile come personificazione di quell’estremismo nazionalista che nella realtà non influisce sulle strategie del Cremlino, ma proprio per questo meglio simboleggia l’accusa di imperialismo guerrafondaio che i nemici interni ed esterni usano come arma per destabilizzare l’immagine e il potere del neo-zar. In ogni caso, per coloro ai quali sta a cuore davvero la libertà di idee, non soltanto delle proprie ma di tutte, incluse quelle che possono sembrare aberranti, l’atto terroristico contro i Dugin è una pagina d’orrore che non si può derubricare a “incidente”.