Nel 2003 usciva al cinema il film britannico Love Actually, ancora oggi tra le rom-com più cult dei nostri tempi. In particolare, impossibile dimenticare Hugh Grant nei panni del primo ministro inglese: scanzonato, impacciato e allo stesso tempo irresistibile riusciva a rinnovare del puro e sanissimo orgoglio di essere british nel Regno Unito tutto dicendo frasi memorabili come: "Siamo la patria del destro di Beckham. E anche del sinistro di Beckham". Oggi, è come rivedere quello stesso premier sullo schermo, solo 20 anni dopo, appesantito e ossigenato, ma fisionomicamente la stessa persona. Che però non ne azzecca una. This England è la serie sull'ascesa e la caduta di Boris Johnson, disponibile su Sky e Now dal 30 settembre. A metà strada tra il documentario e la fiction, dubitiamo possa far sentire altrettanto fieri di essere brit. Allo stesso tempo, rafforza in chi vive dall'altra parte della Manica, una certezza: siamo, tutti, nelle mani di buffoni incompetenti che navigano a vista verso un gigantesco iceberg. Con buona pace di Harry Potter e Dante Alighieri.
Prendi l'attore inglese più fisicamente distante da Boris Johnson e faccelo somigliare. Un'impresa impossibile, ma riuscita in modo incredibile dato che il reparto make up è stato in grado di trasformare Kenneth Branagh nel premier inglese come fossero stati separati alla nascita. Non si tratta certo dell'unico sforzo che la serie compie: siamo davanti a un lavoro sopraffino che ci porta a rivivere il periodo nero della pandemia, ossia quando l'Italia poteva dirsi, per una volta, capolista in Europa e nel mondo: primissimi nella classifica dei contagi, fin da inizio stagione, senza rivali. Vivevamo il lockdown quando ancora all'estero ci si preoccupava, al massimo, di lavarsi le mani prima di uscire di casa.
Le prime due delle sei puntate di questa miniserie factual su una storia così recente che sembra incredibile aver vissuto sulla nostra pelle e poterla raccontare, sono già disponibili e la domanda è: possono appassionare anche chi non è ferrato sulla politica internzionale? Si direbbe proprio di sì. Sempre ammesso che lo spettatore abbia voglia di rivedere tubi, mascherine e telegiornali catastrofici mentre nelle stanze del potere, davanti ai dati preoccupantissimi che arrivano da Cina e Italia, si esclama: "Abbiamo bisogno di dare alle persone buone notizie". Quelle stesse persone che nel frattempo morivano.
Branagh interpreta un primo ministro innamorato della letteratura, del giornalismo (proprio per questo non crede a una sola parola scritta online o su carta stampata), un animo svagato, fondamentalmente un burattino a cui è lo staff che gli cura la comunicazione a tirare i fili. Tanti piccoli squali di terra seduti intorno a lui che dibattono di vita e di morte come fossero Pringles, mentre l'uomo che tiene le redini del Paese si beve una tazza di tè, pensa alla giovane moglie incinta e al libro su Shakespeare che ha da scrivere, in attesa che i suoi spin doctor trovino una quadra su ciò che gli toccherà dire in tv per fare forza al popolo britannico e sostanzialmente fingere empatia. "Preparatevi a vedere morire i vostri cari", non era un'esternazione approvata dal team public speaking, ma Johnson quel giorno doveva essersi rotto i coglioni di fare il pappagallo ammaestrato.
Figure retoriche per camuffare l'orrore, vedere come chi è al comando parli, presumibilmente, delle sorti di un'intera popolazione è disarmante. Nonché la vera parte horror della serie che tocca corde troppo profonde per risultare un semplice documentario di cronaca. Mezzo milione di persone moriranno? Questo è lo scenario peggiore? E sia immunità di gregge, allora, lasciamo tutto aperto, smarmelliamo alla Boris, che vuoi che sia? L'unica obiezione a questa risoluzione è sull'utilizzo della parola "gregge", termine che potrebbe risultate sgradito, dati alla mano, a una nutrita percentuale di britannici che si sentirebbe offesa nel vedersi paragonare a un branco di pecore. Perché lasciarci le penne, invece, è ok. L'importante è il modo in cui gli verrà comunicata la notizia, sia mai che possano prenderla a male, Sir.
È su questo doppio binario tra pragmatico cinismo e orripilante realtà dei fatti che si snoda l'intera narrazione, narrazione che porterà alla discesa agli inferi di Johnson. Ma la sua figura passa quasi in secondo piano rispetto alla spietatezza dei cortigiani che si è scelto e al menefreghisimo generale rispetto alla pandemia. This England non è una denuncia urlata, risulta invece sottilissima ma allo stesso tempo corrosiva. Fa pensare a quando, nel pieno del primo lockdown, vedevamo il resto d'Europa andare a scuola, allo stadio, a fare la spesa senza comprarsi scorte per un mese. Fa pensare, insomma, a quando vedevamo vivere nella più totale normalità tutte quelle persone e a quanto, chiusi in casa, rosicassimo per questo bestemmiando il governo ladro della nostra libertà. I dati dei contagi che, mano a mano, si leggono in sovraimpressione di puntata in puntata, insieme a quelli dei decessi, rendono tutti, sia noi che gli altri, fessi davanti all'impossibile che stava accadendo.
Poteva andarci meglio? Peggio? Di sicuro, sarebbe interessante un'operazione simile per ricostruire l'impegno del governo italiano durante la pandemia, tutte le fasi della gestione claudicante, ma sempre volta al minor rischio possibile, di cui abbiamo fatto esperienza. Con Giuseppe Conte interpretato da Pierfrancesco Favino e uno splendido Rocco Casalino-Beppe Fiorello. Teniamoci This England, allora. Don't mention It.