L’unica regola per fare la panna montata è continuare a girare. Con costanza e decisione, fino a che si arriva al punto giusto. Mano e olio di gomito per i più tradizionalisti, fruste elettriche per i più tecnologici. Il risultato è portato solo dalla pazienza e dalla convinzione che, sì, prima o poi quel che deve montarsi si monterà a dovere. Antonio Dikele Distefano e Fedez ci hanno messo settimane per girare e girare e alla fine hanno offerto al pubblico il loro piatto pronto: una panna giornalistica con tantissima aria e pochissimo latte. I due riescono nell’incredibile operazione di far diventare in poche ore seconda nelle tendenze di YouTube un’intervista di un’ora e tre quarti che è un piccolo manuale di passivo aggressività in cui non viene detto praticamente niente.
Piccolo riassunto: il 13 dicembre Fedez viene intervistato dal fondatore di Esse Magazine in un teatro di fronte ad un pubblico dal vivo, per un incontro promozionale in occasione dell’uscita del nuovo album dell’imprenditore e oggi cantante nel tempo libero, “Disumano”. Il video tratto dall’incontro scompare dai radar e presto la faccenda si fa pubblica. In alcuni video e stories sui social network i due si rinfacciano colpe vere e presunte nel ritardo di uscita del prodotto editoriale. Federico Lucia, che come sappiamo è piuttosto allergico alle linee editoriali altrui, lamenta la proposta di un montaggio troppo forzato che vorrebbe diluire alcune figuracce di Dikele e in generale la pessima atmosfera tra i due. Definisce l’intervista “un’imboscata”. Dikele dalla sua parla di “liberatorie non firmate” e del tentativo di Fedez di bloccare totalmente l’uscita del prodotto.
Dopo settimane a montare il caso-panna l’intervista esce in tutto il suo completo splendore. Tensione ce n’è, si percepisce. Momenti anche interessanti non mancano. Ma va da sé che la conversazione avrebbe fatto il rumore che fa una piuma su un lago se non fosse stata preparata dal rumoreggiare internautico dei due protagonisti. Alcuni elementi balzano all’attenzione più di altri. Di Dikele colpisce la mancanza di familiarità con le tematiche affrontate. Per tutto il tempo tenta di attribuire a Fedez ruoli che non ricopre, su tutti quello di uno dei simboli del rap nazionale. Federico, con un certo godimento, rigetta al mittente questo titolo definendosi fieramente pop. Sembra quasi che Dikele necessiti di giustificare (di fronte a non si capisce chi) la scelta di intervistarlo, come se non voglia ammettere a sé stesso che sta intervistando un artista pop e non rap. Un altro momento che lascia perplessi è quando lo scrittore classe ’92 dimostra di sapere poco del funzionamento della macchina discografica odierna, mettendo in dubbio addirittura la legittimità di avere autori. “Altri autori, oltre all’artista, ci sono solo quando ci sono collaborazioni, secondo me” dice all’ospite indispettito; affermarlo oggi è una follia: nel mainstream gli artisti che scrivono tutto da soli si contano sulle dita di una mano. In generale insomma non solo non sembra molto a suo agio, ma pare non padroneggiare per nulla gli argomenti di discussione e nemmeno il suo ruolo di giornalista. Più volte, quando tenta di dare a Fedez il là per parlare, quest’ultimo lo punzecchia con risposte piccate del tipo: “Qual è la domanda?”.
Del cantante milanese colpisce l’atteggiamento opposto. Pare che il sottotesto di ogni sua frase sia: “Potrei comprare te e questo intero teatro e non mi interesso di nulla eccetto che di me”. È sfidante, quando gli viene fuori l’accento milanese ricorda tantissimo Matteo Salvini. In diversi momenti della chiacchierata Dikele appare ancora più impacciato dal fatto che Fedez non risponda praticamente mai alle sue domande, ma ne azzanna le intenzioni. In uno strano transfert freudiano ad un certo punto si lamenta proprio della tendenza di “tutti” di fare abitualmente lo stesso con lui (premurandosi di spiegare al pubblico presente in sala il significato dell’espressione “processo alle intenzioni”). Se Dikele appare cedevole, Fedez appare aggressivo. Anche quando si cerca di parlare di musica e di creatività, il cantante si sente attaccato e non è del tutto chiaro il motivo. Intendiamoci, non è l’antipatia di Fedez a suscitare moti di perplessità. È il fatto che, a sorreggere quell’antipatia, sembra non esserci nulla più di un uomo definito dalla sua centralità pubblica.
Fedez riconosce l’adorazione di sé stesso come elemento cardine in uno dei momenti più interessanti della discussione, ossia (guarda caso) quando l’argomento vira il marketing. È lì che si illumina davvero, che manifesta la sua vera passione. Scomodando Warhol, Dalì, Malcolm McLaren, il situazionismo e la transavanguardia, il cantante illustra la sua visione di opera d’arte “totale”, in cui il marketing è parte stessa della performance e qualsiasi cosa, per esempio un “disco” è alla stregua di un pretesto per un disegno artistico ben più elaborato. Fedez insomma vede sé stesso come una specie di Banksy della musica italiana ma senza nessun conflitto intrinseco da raccontare, nessun punto di vista sulla società. L’unica cosa da rappresentare, per Fedez, è Fedez stesso. In più passaggi la popstar di Buccinasco – di cui ricorda le difficoltà adolescenziali della periferia - dimostra una grande lucidità nell’inquadrare il rapporto tra contenuti e sovraesposizione mediatica nei tempi che viviamo, affermando di fronte ad un perplesso Dikele che, sostanzialmente, tra fare “l’arte” e non farla, oggi, poco cambia. L’intervistatore lo provoca: “Il tuo disco resterà nel tempo?”. “Ma no!”, risponde Fedez strabuzzando gli occhi. “La vita di tutti i dischi oggi è molto breve”, aggiunge più avanti con saggezza. “Non tutti” risponde Dikele, lasciando intendere di non avere per nulla afferrato la caratteristica cardine del nostro presente, ossia l’impossibilità di lasciare tracce, l’impalpabilità di tutto, anche delle idee, anche dei sentimenti. Fedez tutto questo lo sa bene e la sua consapevolezza non può non affascinare. Eppure, tra l’ingenuità di Dikele e la freddezza del suo ospite, quest’ultima spaventa.
Nella sua lucidità, quello che Fedez va sbandierando è un terrificante cinismo, presentato su un letto di intoccabilità. Lui, spiega, sa di non fare niente che abbia valore e ciononostante lo vende. È un artigiano che non tenta nemmeno più di cercare una forma di bellezza nei mobili che costruisce. Sa di avere gli strumenti per elevarsi verso un altrove spinoziano, possiede capacità critiche e smisurate possibilità pratiche. Ma sceglie volutamente di non farlo. Non crede più in niente, in nessuna ideologia, in nessun senso, non cerca redenzione spirituale in nessun luogo. È un giovane uomo triste. E confuso. Durante la prima parte dell’intervista, ad un certo punto, afferma con orgoglio di ritenere che il contesto valga più del concetto. È interessante che questa convinzione giunga da lui, perché quella tra le due parole è proprio la differenza che ha dimostrato mille volte di non conoscere (lo ricordiamo a tentare di comandare la Rai così come intento a mostrare i suoi figli con la moglie per i loro circa 40 milioni di follower). Ed interessante che giunga proprio in quella sede. Se di contesto dobbiamo parlare, l’elefante nella stanza dell’intervista infatti è che Fedez, nel dissing via social con il giornalista-scrittore, ha dichiarato di non essere allineato con l’intera impostazione di Esse Magazine. Perché? Perché Dikele è un giornalista che si occupa di musica urban e rap pur lavorando con alcuni artisti della scena urban e rap: un conflitto di interessi micidiale. La posizione dello scrittore, ovviamente, da questo punto di vista è indifendibile ma a sua discolpa va detto che è un atteggiamento tristemente diffuso nella pozzangherona dell’italietta musicale. Esistono, per dire, direttori di testate musicali o mediatiche che sono addirittura manager di artisti. Aggiungiamo allora che, come raccontato dallo stesso Fedez, è stata Sony, la casa discografica, a pagare l’affitto del teatro per la stessa intervista. Ma come? “Esse presenta: Fedez a teatro - Una produzione Esse”, è scritto con chiarezza su YouTube. Ce n’è di carne al fuoco per risultare confusi.
In scena abbiamo una lotta tra poteri: ma chi è in potere di chi? Probabilmente, guardando più a fondo, in scena abbiamo più un patto tra gentiluomini. La domanda principale da porre è: se Fedez sopporta così poco un format come quello di Esse, perché ha acconsentito alla sua partecipazione? La risposta è rivelata a tutto il pubblico in quel bel passaggio sul marketing: “L’occasione di fare del marketing fa parte della performance stessa”. Ed ecco che anche un conflitto (noi ci crediamo, reale), può trasformarsi in un momento di esercizio in tal senso. Ogni sentimento può diventarlo. Perché tanto i sentimenti non rimangono più: non lasciano traccia. “Tutto è un esperimento”, dice in un altro passaggio. Più chiaro di così. E un’ora e tre quarti mediocri, mal considerati sia da intervistatore che da intervistato, diventano l’unica ora e tre quarti che il pubblico dovrà vedere in un martedì di gennaio. Un’intervista che simboleggia insieme sia la decadenza del giornalismo, immolato ormai sull’altare della mercificazione, sia l’immoralità dei personaggi pubblici tipo, talmente a disagio con la pochezza di quello che rappresentano (“Non ho un’alta considerazione di ciò che faccio” dice Fedez ad un certo punto) da sforzarsi ad inventare nuovi modi per nobilitare il concetto di marketing di fronte all’opinione pubblica pur di sentirsi presentabili. Che se su uno schermo le cose funzionano, si può tirare un sospiro di sollievo. Peccato che l’unica superficie della quale aver paura non è lo schermo: è lo specchio.