Enrico Brignano ha rilasciato una lunga intervista al Corriere nella quale parla della sua vita e della sua carriera, ma anche di quello che pensa su diversi temi di attualità. Fra questi esprime giudizi poco lusinghieri su cosa sia la “romanità”, che implica tanti aspetti positivi e anche qualche pecca. Lui Roma la conosce bene, essendo originario di Dragona, periferia sud di Roma, una “ridente borgata tutta abusiva e non contemplata dal piano regolatore, affacciata su una bella marana - affluente del Tevere - e con certe zanzare da tre etti, tre etti e mezzo, che decollano verticalmente. Non era nemmeno segnata su Tuttocittà. Capitava tra D1 e D14, proprio in mezzo alla piega”. Ha ricordato anche di “quando guidava (il padre, ndr), con mamma accanto e noi seduti dietro, senza aria condizionata, con coperte abruzzesi stese sui sedili di finta pelle - mica avevamo cuffiette e playlist – se ci azzardavamo a chiedere ‘siamo arrivati?’, ci mollava subito una cinquina”.
Il suo racconto delle origini prosegue poi con le gite a Roma: “Con la Fiat 124 di sesta mano per arrivare in centro ci voleva un’ora e mezza, di sabato anche due. E 10 mila lire di benzina, cambio acqua e olio, consumava quanto un Leopard. Per risparmiare montai il bombolone a gas. Mettevo Radio Mambo, ma c’erano continue interferenze di Radio Maria — ‘sia lodato Nostro Signore’— che si sentiva pure sotto al Gran Sasso. Del resto il mio era un viaggio della fede, nella speranza che lei ci cascasse (la ragazza di turno, ndr)”. A un certo punto arriva anche alla “romanità”, che descrive come “ in caduta libera, nel declino totale anche della lingua. Ridotti al ‘bella, fratè’. La romanità vera non c’è più. Quella di adesso - auto a noleggio e mazzette di soldi mostrate su TikTok — non mi piace, è cafona e sgraziata. Il coatto buono di cuore non esiste più, rimpiazzato da gente che si tatua il filo spinato sul braccio o si fa il polpaccio nero, manco avesse strusciato contro la marmitta”.