Roma, Festa del Cinema. Avevo incontrato Paul B. Preciado vicino all’Auditorium: se tanto mi dà tanto avrei dovuto chiamarlo regista. E qui c’è il primo dei miei errori. Paul era lì per presentare, anche grazie al suo editore italiano Fandango, il suo primo film che è un misto tra auto-biografia e celebrazione della prima vera pensatrice queer della storia occidentale (Virginia Woolf). Si chiama Orlando: la mia biografia politica, e dentro c’è tanto del Paul filosofo e scrittore. Preciado, che una volta si chiamava Beatriz, come spesso capita ai filosofi che iniziano a sperimentare con altri generi non ha molta fortuna tra i dipartimenti di filosofia mentre altrove: studi critici, moda, design, arte contemporanea, cinema, ha ormai un’aura equiparabile solo a quella di Pier Paolo Pasolini (che infatti, dagli intellettuali letterari dell’epoca era detestato). Ha rivoluzionato il mondo degli studi di genere, raccontato con penna mai scontata il suo percorso di transizione (da donna a uomo), l’idea di pornografia, una filosofia riletta alla luce di un piacere conoscitivo non patriarcale. Gucci, con Alessandro Michele, qualche anno fa lo ha resto una star (suo malgrado, a quanto pare): protagonista di uno storico video con cui è diventato semplicemente “Preciado”, uno dei più influenti intellettuali. Ma perché un film? E perché la cosiddetta “queerness” è qualcosa che è prima di tutto legata a una metodologia di ricerca e solo dopo a una presa d’atto di una metafisica “liquida” per la costruzione identitaria dei generi di cose, persone, eventi...
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Paul, il tuo primo film. Questa sarà la quarta o quinta intervista che ti faccio, ma non era nell’aria il tuo debutto da regista. O almeno non me lo avevi mai detto. Cosa puoi esprimere con un film che non puoi dire con un libro? Anche questa scelta di mischiare i generi, fare video, è queer?
Allora, direi che sicuramente a me interessa l’idea. Proprio l’idea in sé. Poi, in un secondo momento, tendo a trovare il media migliore senza avere nessun preconcetto. È sempre un modo per fare filosofia per me, e forse dovremmo chiederci cosa significhi fare filosofia oggi… le cose sono cambiate. Non credo sia più filosofico un articolo o un libro, la contemporaneità esige che si sappiano usare diversi media e capire quale media è il migliore degli strumenti possibili per le teorie che vuoi difendere. Mi hanno dato la possibilità di fare un film, e mi hanno lasciato libero di farlo: la considero una fortuna. Ho scelto io di non insegnare più in un’università e ho abbandonato l’incarico da professore che avevo in Francia. Non credo che la struttura accademica sia più minimamente titolata a distribuire la spinta necessaria alla conoscenza per agire davvero nel mondo … serve sperimentare in ogni campo.
Connessioni con quando avevi fatto l’attore per Alessandro Michele e Gucci?
No, non direi. Certo era sempre un esperimento con le immagini in movimento. Sono amico di Michele ed è stato anche bello perché con me c’era anche un’altra cara amica attrice, cioè Silvia Calderoni, ma io non stimo l’industria della moda, per nulla: è energivora, violenta, terribile. Non è proprio il mio mondo ecco. Questo non significa che Prada o Gucci non facciano cose interessanti con le giuste direzioni creative ma io non voglio che il mio nome venga associato con il mondo della moda… a me interessa solo come si possa trasformare o giocare con un corpo, lavorare oltre i suoi sentieri e steccati identitaria. Ma non la moda in quanto tale ecc. E non voglio, in nessun caso, che si pensi che io abbia fatto pubblicità a qualcuno o qualcosa.
Però mentre parli penso… non è che l’industria del cinema invece sia sana e sacra eh…
Hai ragione. Anche l’industria del cinema presa in senso stretto è violenta: infatti io non voglio che mi si chiami regista, né tantomeno che mi si veda come un lavoratore di questa industria. Ho solo fatto un tentativo, ecco. Orlando è un film in cui provo a invertire tante cose, anche il ruolo dell’attore. Chiedo, con garbo, ai partecipanti se hanno voglia di raccontarsi nel rispetto delle loro storie che comunque affronto sempre sul crinale della metafora… non impongo nessun copione e li ascolto da Orlando a Orlando. E, per connettere le cose che mi hai chiesto… non avessi lavorato per Gucci non esisterebbe questo film perché molti di quei soldi li ho usati per produrlo di tasca mia. Ma ne sono orgoglioso.
Ma come la abiti questa palese contraddizione allora?
Ogni media può essere usato bene o male. Non bisogna incorporare ciecamente le norme del media che stai usando ma provare a decostruire dall’interno. Questo me lo ha insegnato benissimo Judith Butler per esempio… la battaglia dall’interno, contro la sorveglianza coercitiva presente anche negli strumenti apparentemente creativi e neutrali. Io lo faccio sempre, anche quando scrivo un libro… non è che con il cinema sia poi così diverso. E anche questo il senso di molte scene dove mostro il “dietro le quinte”… provo a smontare il cinema del suo interno.
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Tu sei uno di questi Orlando, a partire proprio dal tuo nome: “Paul” che deriva da uno dei nomi di battesimo di Michel Foucault che lui utilizzava per andare nei locali omosessuali nella Parigi proibizionista…
Solo tu potevi farmi questa domanda! Certo, è così: tengo moltissimo a questo aspetto di “epistemologie dei nomi propri”. Paul è il mio nome, proprio perché non è il mio nome: un’anti-categoria dove trovare rifugio dai sentieri del mondo binario, patriarcale, così concentrato sulle ontologie e tassonomie stringenti. Questa è la violenza della metafisica. Orlando è il tentativo di smetterla di categorizzare le forme dello spirito… trans, queer, non binario… e dire soltanto “ho conosciuto un altro Orlando”. Direi che sì, ecco una conquista politica davvero rilevante. Perché se il mio lavoro non ha un risvolto politico allora non è stato un buon lavoro. Infatti abbiamo usiamo il red carpet del festival non solo per me o gli attori ma per una piccola camminata militante queer… sono piccoli segnali.
La questione Queer, dunque, contro la possibilità di una identità stretta e non come la nascita di nuove identità. Qualcosa che andrebbe spiegata al femminismo da giornale quotidiano… senza polemica, ma davvero per andare oltre.
Esatto. Certo, per ogni minoranza prima di tutto è importante affermare la propria identità soprattutto se per millenni è stata repressa o cancellata. In secondo luogo però, questo è il vero obiettivo credo, si deve andare oltre gli steccati di nuove identità e mettere in discussione il concetto stesso che una identità esista davvero. Questo era già appunto presente nel libro della Woolf (che inizia con la storica frase “Egli, non essendo più sicuro del suo sesso”), ed è per questo che sia io che lei giochiamo con l’idea di “biografia"… costruire la narrazione di un io a partire da un noi. Rendere fluide le forme della soggettività, perdersi senza mai ritrovarsi: perché non serve, ed è profondamente liberatorio abitare un mondo liquido e non solidamente stabile e rigido. È la mia anti-ontologia, la mia risposta a molto sistema filosoficamente patriarcale che mi ha formato quando studiavo a Parigi con Jacques Derrida o a New York e Princeton. Possiamo riscrivere la teoria della conoscenza ma con quale obiettivo? Liberare l’Orlando che dunque ognuno di noi davvero è.
Mentre stiamo parlando, Paul, la Palestina è stata invasa come risposta al terribile attentato di Hamas contro Israele. Come facciamo a occuparci di diritti di genere in un momento del genere?
Hai ragione, ne ho scritto anche su Libération. Sono preoccupato, davvero preoccupato, per quello che sta succedendo… ed è terribile anche il modo maggioritario con cui ne parlano i media occidentali. E ancora una volta un problema identitario e non si deve scindere le cose ma vedere la connessione: ci scanniamo per questioni legate a possessi identitari e territoriali e se questa volta non riusciremo a fermarci credo che tutto sarà più complesso che il “semplice” (capisci cosa intendo) conflitto israelo-paestinese. Se tutte le democrazie non prendono parte alla fine di questo massacro molto presto potrebbe crollare tutto. Anche qui: questo potrebbe essere l’ultimo festival del cinema. Capisci cosa intendo? Dobbiamo difendere la democrazia.
Mi è molto chiaro. Cosa ti preoccupava dunque mentre facevi questo film, anche in relazione a ciò che mi hai appena detto?
Liberare. Liberarci dalla violenza dell’imposizione di identità che non abbiamo scelto ma che ci condizionano: gli sfondi culturali che ereditiamo dal passato e che, se superati, vengono definiti disforia o attentato politico. È per me la questione più rilevante del nostro tempo e credo che l’arte potrebbe fare moltissimo… per questo mi sono mosso dalla filosofia all’arte, dall’arte al cinema… lo avrai visto nel film. La cosa più importante per me è lo sguardo poetico, quello con cui reincarnare il mondo e osservare diversamente le cose. Dargli nuova forma, diversa delicatezza, sostanza alternativa rispetto al linguaggio bellico e violento della realtà quotidiana. E perché, come nel mio finale, arrivare un giorno a una società che non divide più tra maschi e femmine, che significa di fatto lasciare la libertà di essere come si vuole. O il sospetto che ci sarebbero molte meno guerre, assai meno dolore.
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