La grandezza del film? Si è sostituita la difficoltà di fare la cosa giusta con la difficoltà di perdonare. Nonostante in Paternal leave, scritot e diretto da Alissa Jung, tutti sbaglino, non sono tanto gli errori a caratterizzare i personaggi, ma l’incapacità di fare il passo giusto. Lo dice più volte Paolo (Luca Marinelli) cercando di spiegare perché abbandonò la ragazza tedesca amata per un attimo, un’estate, nel 2008, rimasta incinta di lui. Paralizzato. Traumatizzato. Gli errori ci traumatizzano, ma anche ciò che errore non è. Diciamolo meglio: la vita ti traumatizza.
La vita fa sì che la tua identità si sbricioli, inevitabilmente, come la spiaggia divorata dall’acqua che sale e finirà per circondare Bosco, il bar e scuola di surf di Paolo. Così i tuoi vent’anni, la tua giovinezza, la tua voglia di fare l’amore, spariscono e tu, quando ti fanno capire che sta sparendo, quando hai di fronte la ragazza che hai messo incinta per esempio, vedi non solo attraverso quella pancia quel che la tua giovinezza, la tua voglia di fare l’amore, i tuoi vent’anni, ti hanno portato a fare. Ma quel che tutto questo mondo che ti porti dietro, la tua sicurezza, il tuo carattere, il tuo modo di stare al mondo, ti ha permesso di fare. Paralizzante, la vita, come la libertà. Ed entrambe non prive di conseguenze.

Poi arriva lei, il frutto di quella libertà, il precipitato dei tuoi vent’anni, Leo, una ragazza intelligentissima e colta, diretta, emancipata, con un buco al centro del corpo, no non nel cuore, nello stomaco, dove brucia, dove nell’antichità si credeva che le cose rodessero e dove oggi non possiamo negare che turbinino davvero. Dove le pareti sempre incandescenti fanno bollire i succhi che piano piano divorano, ancora come la marea, le stesse pareti che li hanno riscaldati. Leo (incredibilmente interpretata da Juli Grabenhenrich) si muove solo apparentemente in modo opposto a Paolo. Scappa dalla Germania per qualche giorno, ma non lo dice alla madre, vuole conoscere sua padre Paolo, non sa quanto tempo restare, vuole conoscere la nuova famiglia di Paolo, che Paolo sta perdendo, e vuole tornare da sua madre, che le manca.
È anche lei paralizzata, immobile non tanto per via del dolore, ma dell’ignoranza totale nei confronti di quel meccanismo, la paternità, che le sembra tanto bello quanto esclusivo, ancora più bello e esclusivo quando Paolo lo mette in scena con Emilia, l’altra figlia, più piccola, che la sera dell’arrivo di Leo in Italia dorme nel camper mentre Paolo le suona una canzone, la bellissima Solo per gioco di Giorgio Poi. Leo si mette ad ascoltare fuori e finisce anche lei per addormentarsi. Ha voglia di suo padre, ma ancora di più ha voglia di sentirsi figlia.

L’unico personaggio in qualche modo autonomo, che mostrerà alla fine una fragilità che chi cresce in provincia conosce e chiama solitudine, è anche quello più capace di perdonare. È l’unico che non è paralizzato, seppur bloccato nel suo paesino. “Watson” (Leo lo chiama così, perché quando si incontrano lei lo riempie di domande e Edoardo, questo il vero nome, la soprannomina “Sherlock”) interpretato da Arturo Gabriellini, gay in un paese in cui è meglio non dirlo. Con un padre che lo picchia e gli lascia riviste porno in giro. E lui, nonostante questo, lo perdona suo padre. E non è, o quantomeno può anche non essere che sia, una forma di subalternità, di complesso d’amore per il tuo carnefice. È una maturità sentimentale, la stessa che suo padre, picchiandolo, vorrebbe cancellare, che riesce a fare del bene anche a Leo, con discrezione ma empatia.
Alissa Jung, la compagna nella vita reale di Luca Marinelli, costruisce un film delicato e introspettivo, dotato di raffinatezza e in cui il minimalismo scava più affondo di tanti barocchismi scenici fini a se stessi. È, in un certo senso, il nostro (nostro e tedesco) Manchester by the sea. E ci dispiace fare un torto a Luca Marinelli, un fuoriclasse assoluto, ma nella sua intervista, almeno in parte, aveva torto. Questo film è talmente bello che non mette in scena una narrazione ormai fin troppo di moda, quella contro un’idea di maschio tossico: fa di più, perché, volenti o nolenti, ci pone di fronte alla vita stessa, a volte tossica, a volte difficile, traumatizzante e paralizzante. Dove i maschi, come qualsiasi altra creatura, sanguinano fino a morire. Come i fenicotteri feriti a una gamba. Questa stortura, troppo umana per essere cancellata, ci riguarda tutti.
