Quando Giampaolo Manca ci ha contattati per mostrarci in anteprima il suo docufilm, A Portrait of a Redemption in Five Acts, ha posto una sola condizione: mentre lo guarderete voglio esserci anche io. Così ci siamo trovati sul divano di casa in un lunedì sera, le luci spente e il Doge della Mala del Brenta seduto a fianco a noi. È un uomo diviso Giampaolo Manca. Non rinnega un passato fatto di furti, violenza, spaccio e omicidi, ma nemmeno lo rivendica. Non chiede perdono ma lo cerca instancabilmente, abbastanza da lavorare con un’associazione che si occupa di bambini autistici. Per farlo nella maniera più concreta possibile dedica loro parte dei proventi ricavati dai tre libri che ha scritto, a cui ora si aggiunge questo docufilm. Puoi credere o meno alla sua redenzione, scegliere non è semplice e non è nemmeno così importante. Lui lo sa e scrolla le spalle: “Dio mi vede. Quando lo incontrerò gli chiederò di perdonarmi”.
Il documentario è stato affidato alla regista canadese Gianna Isabella Magliocco, che prima di accettare il lavoro gli ha fatto una semplice domanda: “Che messaggio vuoi dare al mondo?”. È stata la domanda giusta. Così il Doge l’ha invitata nella sua Venezia e lei, che viene da un paesino sulle montagne a qualche centinaio di chilometri da Vancouver e ha lavorato con i grandi registi di Hollywood, si è ritrovata a vedere una città invasa dal turismo con occhi diversi. Tra canali e campielli c’è la storia di Giampaolo Manca che qui rubava i gelati, lì scappava in barca, là nascondeva armi e droga. “Quando l’ho detto ai miei genitori mi hanno chiesto se ero sicura”, ci racconta lei, un bicchiere di vino in mano e un sorriso divertito sul volto. “Sai, partivo per andare dall’altra parte del mondo, c’era questa storia di mafia italiana… all’inizio è stata dura, non capivo praticamente nulla”. Giampaolo la tratta come una nipote e le mostra il mondo come lo ricorda lui prima dei trentasei anni passati in carcere. Quando parla di lei però, lo fa con un misto di affetto paterno e riverenza. Vederli assieme è un qualcosa che a tratti rasenta la comicità.
Portrait of a Redemption in Five Acts: com’è il film su Giampaolo Manca, Doge della Mala del Brenta
Da quindici anni a questa parte gli show che funzionano meglio in Italia raccontano la criminalità: si è è cominciato con la serie Romanzo Criminale forse, tratta dal romanzo di De Cataldo e dedicata alla Banda della Magliana. Poi è arrivato Faccia d’Angelo che invece inscena, per l’appunto, i trascorsi della Mala del Brenta. Da qui Gomorra, Blocco 181, Mare Fuori e un’altra dozzina di esperimenti più o meno riusciti. La storia generalmente è sempre la stessa: ascensione, dominio e caduta, nel mezzo amore e tradimenti. Il “ritratto di redenzione” di Giampaolo Manca è l’esatto contrario. La retorica sul criminale dannato, ma ricoperto di denaro, belle donne, fiumi di cocaina e piogge di piombo è stato sostituita da una Venezia cupa, in un bianco e nero che omaggia il cinema neorealista tenendosi ben ancorato alla definizione di documentario. Si sentono il freddo e la fatica, si percepisce la miseria. Il ritmo è lento perché l’intenzione del regista è quella di provocare una riflessione nello spettatore, mettendo in scena la rovina di un uomo che agiva senza senza fermarsi finché a fermarlo non sono stati altri: “A volte mi chiedo perché Dio non mi abbia bloccato”, dice Giampaolo al figlio Armando in una scena del film, probabilmente in un confronto a favore di camera che i due non avevano mai avuto nella vita reale. Manca racconta di quando, assieme al gemello Fabio e ancora minorenne, rubò lo Yacht di Aristotele Onassis, di averlo fatto “Perché tutti in città parlassero di noi”. Oppure di quando per portare a termine una rapina rinchiuse i Carabinieri in caserma con un catenaccio attorno al cancello: “Praticamente gli abbiamo arrestati”. Di tanto in tanto traspare dell’ironia, mai la spettacolarizzazione della vita da criminale però. C’è, invece, la realtà di un uomo che sembra essersi appena svegliato da un incubo, costretto ad un ballo senza musica. “Mi chiamavano Doge perché andavo a rubare nelle chiese dove erano sepolti i Dogi”, spiega in apertura, come a voler togliersi subito gli abiti del mito. A volte lo guardi e pensi che stia quasi godendo a soffrire, altre sembra solo contento di essere di nuovo lì, al centro del suo mondo. Alla fine del terzo atto il Doge della Mala del Brenta non trattiene più le lacrime, Gianna che gli è seduta a fianco gli appoggia una mano sulla schiena provando a consolarlo in silenzio. Il lungometraggio parla di quest’uomo e al contempo, un po’ alla volta, racconta la città di Venezia, della vita che vi scorreva quando la povertà generava rabbia e non indignazione.
Finito il film Giampaolo Manca appare provato, eppure come promesso rilascia una lunga intervista: è personale, intensa. Risponde a tutto, arrivando a toccare temi sgradevoli e complessi. Poi racconta del suo debutto Festival del Cinema di Venezia 2023, quando gli è stato proposto di fare qualche fotografia sul tappeto rosso: “Non andrò mai sul red carpet. Io ho ucciso. Ma spero di fare altri dieci film per costruire una casa ai ragazzi autistici”. Quanto sia cambiato Giampaolo Manca è impossibile da stabilire in un’ora e mezza. Portrait of a Redemption in Five Acts non è un documentario sulla trasformazione del suo protagonista, un uomo che ha passato più di metà della sua esistenza tra carceri e aule di tribunale.
Questo documentario arriva a un altro punto e ti porta a scoprire, forse per la prima volta, cosa sia davvero l’esistenza di un criminale, esistenza che il più delle volte segue sempre lo stesso percorso: privazioni che portano agli eccessi, eccessi che portano al vuoto. Giampaolo Manca è tra i pochi uomini a questo mondo in grado di guardare al futuro dopo trentasei anni di carcere. E questa, signori, è la sua storia.