Ha ucciso e hanno cercato di ucciderlo, ha compiuto furti eclatanti fin dalla più tenera età e ha trafficato in droga arrivando a guadagnare cifre impressionanti (1 miliardo di lire al mese), ma queste attività gli hanno sottratto a loro volta 36 anni di vita passati in carcere al 41bis. È stato un esponente di spicco della Mala del Brenta – che secondo lui non era una mafia –, ha pagato senza mai tradire i vecchi compagni di scorribande e ora, nonostante avrebbe un conto in sospeso niente meno che con Felice Maniero, quasi quasi lo compatisce: “Ha pagato con la morte della figlia, perché la sua famiglia dopo la collaborazione e aver venduto i suoi amici vive nel terrore”.
Giampaolo Manca, 66 anni, da tutti conosciuto a Venezia come Il Doge – un soprannome che un tempo faceva tremare chi lo pronunciava – oggi è un uomo nuovo, che attraverso i suoi libri, un film con un regista premio Oscar e una serie Netflix in lavorazione, racconta l’esperienza di chi ha sbagliato tanto per cercare di non far cadere gli altri, in particolare i giovani, negli stessi errori. E soprattutto, si spende con grande energia verso chi ha più bisogno, progettando la costruzione di un grande centro per aiutare i genitori con figli autistici o in supporto alle ragazze madri.
Lo abbiamo intervistato, scoprendo che a tutto c’è rimedio, tranne che alla morte.
Dopo aver passato tanto tempo in carcere, si aspettava tanta attenzione verso la sua storia?
No, anche se ho scritto tutto con il cuore. Da quando ho scritto il primo libro ricevo migliaia di messaggi da parte di ragazzi. Purtroppo, in tanti casi vengo idolatrato perché il male attira, non c’è un cazzo da fare. Una volta uno mi ha detto: “Ma perché hai smesso, avresti potuto insegnarmi a fare le rapine”. A chi mi dice così, prima lo mando affanculo, poi gli spiego il resto e in tanti si rendono conto e smettono di provare a voler cercare la via più breve. Due libri sono già usciti, ma in tutto saranno sei, ho già scritto 4mila pagine. Tutto per far capire che fare il bandito non vale niente. Più degli anni di galera, è il male fatto agli altri che non si cancella.
Quel è stato il punto più basso del vostro percorso criminale?
Quando abbiamo iniziato a smerciare la droga nel Veneto. Siamo stati degli infami. E per questa definizione sono andato anche in guerra con i miei ex amici. Infame nell’ambiente malavitoso è l’insulto peggiore. Ma abbiamo fatto un danno incalcolabile, quanti giovani sono morti? Come faccio a perdonarmi? È impossibile!
Quale invece il momento in cui ha rischiato di più la vita?
Durante una rapina in banca. Siamo stati traditi da qualcuno e sono arrivati i carabinieri del Ros che mi hanno sparato contro 70 pallottole. Non so come ho fatto a salvarmi. Mi hanno catturato e in caserma per due giorni mi hanno massacrato di botte. Volevano i nomi degli altri che erano scappati e mi hanno conciato per le feste. Non possono smentire, perché ho i certificati medici. Però non li ho denunciati. Quando all’ospedale mi hanno chiesto cosa fosse successo, gli ho risposto: “Niente”. Io due anni prima del caso Cucchi nel mio libro ho descritto quello che avviene nelle caserme, specificando che sono solo stato più fortunato di quel povero ragazzo. Uno dei carabinieri presenti allora ha poi confessato, si trova scritto in una sentenza, non dico balle.
Il capo della Mala del Brenta era Felice Maniero o è stata una ricostruzione giornalistica?
Non c’erano capi nella banda. Per la stampa era Maniero, ma non era vero. Lui era solo un complice di una compagnia. La sua collaborazione ha cambiato tutto. Se la fa uno qualsiasi vale poco, ma se la fa uno degli uomini di spicco ha un valore più importante. E per come l’ha fatta lui ci ha venduto tutti per non pagare il suo conto con la giustizia.
Ho visto un suo video sui social, nel quale risponde a un ragazzo che le domanda ingenuamente: “Tu e Maniero avete litigato?”.
Nel nostro ambiente non si litigava e se si litigava ci si uccideva. Se uno era un infame o si sospettava che fosse un confidente, purtroppo, c’era la pena di morte. Era la nostra legge. Se anche adesso lo uccidessi mi ridarebbero indietro i 36 anni che ho passato in galera? Ma basta con questo mondo di merda! Non ho più avuto rapporti con lui. Ha collaborato con la giustizia, che vuol dire “dare per avere”, che è un’altra cosa rispetto al pentimento dell’anima, quello vero. A lui non frega un cazzo di nessuno, ha solo voluto scappare dalle sue colpe.
In che modo ci è riuscito?
L’unico modo era patteggiare con la Procura antimafia di Venezia. Infatti, io, come molti altri, dopo la sua collaborazione, siamo diventati dei “mafiosi d’ufficio”. La nostra banda poteva essere definita in tanti modi, come di trafficanti o di rapinatori, ma non di mafiosi. È stata una sentenza sbagliata, come tante altre in Italia, che lo ha stabilito. Non faccio la vittima, ma quando lo hanno preso rischiava 30 anni di carcere e lui ha detto che non avrebbe collaborato. Allora hanno scomodato alti livelli delle istituzioni e gli hanno proposto le attenuanti dell’articolo 58ter per collaborazione nell’ambito di una organizzazione mafiosa e quando ha accettato ci ha fatto diventare tutti mafiosi. Basta guardare quanto è stato recluso: dal novembre 1994 primi di aprile del 1995. Fine dei giochi. Non è mai più andato in galera. Cinque mesi. Se questa è giustizia.
Se potesse parlare a Felice Maniero, cosa gli direbbe oggi?
Di Felice Maniero non me ne frega più niente. Lui ha pagato nel modo peggiore perdendo la figlia che si è uccisa perché la vita di un collaboratore di giustizia stravolge l’esistenza. Ti devi nascondere, cambiare le generalità, hai sempre timore di essere ammazzato da chi hai tradito.
C’è chi ha parlato di "vendetta" verso Maniero nella morte della figlia.
Sono certo che non è stata una vendetta. Un giorno ho ricevuto una telefonata da uno della polizia scientifica di Pescara che voleva un mio libro e ha seguito il caso della povera Elena. Alla fine di mille indagini, mi ha spiegato, è stato accertato che si è buttata dal balcone per depressione e uso di cocaina. Perché non e la faceva più di quella vita da fuggiasca. Anche la mamma di Felice ha dichiarato: “Quel disgraziato ci ha rovinato la vita. Non ci ha avvertito e sono 30 anni che viviamo nel terrore”. Ogni volta che ti frena vicino un’auto pensi: “Sono arrivati a prendermi”.
E Giampaolo Manca quando è uscito ha avuto paura di ritorsioni?
In generale no, però quando ho detto che siamo stati degli infami a smerciare droga in Veneto ho ricevuto minacce di morte e hanno anche provato a uccidermi. Ma siccome sono ancora scaltro, lho scampata. Infatti, ho dovuto cambiare residenza. Quando dici infame a un membro della malavita è l’offesa peggiore. Un’onta indelebile.
In che modo hanno provato a ucciderla?
Un giorno una persona appartenente alla malavita mi ha suonato a casa e quando sono sceso ha detto di volermi parlare. Solo che io stavo aspettando i carabinieri che mi avrebbero accompagnato alla presentazione di un libro e quindi l’ho avvisato di tornare più tardi, sennò mi avrebbero revocato l’affidamento in prova ai servizi sociali. Ho subito capito che c’era sotto qualcosa. E così, ho detto a mia moglie che quando sarebbe tornato doveva dirgli che lo aspettavo al centro commerciale. Quando è arrivato, molto stizzito, ci siamo messi a discutere sulla questione della droga e dell’essere stati degli infami e una volta usciti ha estratto una pistola con il silenziatore. Voleva “farmi”, come si dice in gergo. Ma gli tremava la mano, perché avevo giocato d’anticipo. In un centro commerciale pieno di gente e con un sacco di telecamere, ha capito che uccidendomi avrebbe preso l’ergastolo e così l’ha rimessa via e se ne è andato. Da quel momento ho preso tutte le mie precauzioni.
C’è ancora qualcosa di simile alla Mala del Brenta in Veneto?
Ma no, quando lo scrivono sono tutte minchiate! Conosco bene la realtà. Non c’è più niente, ormai è tutto in mano agli stranieri. Ci sono gruppi di tunisini, di marocchini, di albanesi. Hanno parlato dei Casalesi, ma quelli lo dicevano in giro e se lo sei veramente non te ne vanti con gli altri. Sa cosa c’è? Che anche a certi poliziotti piace dipingere queste cose, anche perché l’antimafia porta prestigio e soldi. È un dato di fatto. Quando a livello locale chiedono milioni di euro per le indagini, Roma glieli manda. Esagerare certi fenomeni è un modo per fare carriera e avere prestigio.
Lei ha passato 36 anni in carcere. Che cosa le ha tolto oltre alla libertà?
Ci tengo a precisare “carcere speciale”. Oltre alla libertà ti toglie l’identità e la dignità. Comunque sia, in Italia la pena del carcere non è rieducativa ma una vendetta. Ci sono alcune opportunità, ma sono rarissime. A volte siamo riusciti a fare gruppi di teatro e di lavoro per esempio con Mario Tuti (ex terrorista fondatore del Fronte nazionale rivoluzionario) ma perché abbiamo rotto i coglioni per anni. Ma d’altronde, la gente all’esterno pensa che hai sbagliato e quindi è giusto che tu debba sopportare. La collettività è d’accordo, perché se muore un detenuto o lo picchiano non gliene frega niente. Hai voglia a parlare di diritti. Hai quello di comprarti le sigarette e poco altro.
Lei in carcere ha conosciuto un altro detenuto famosissimo e che ha passato più anno dietro le sbarre che in libertà. Mi riferisco a Renato Vallanzasca, che ha spiegato più volte il codice di un bandito: mai sparare per primo e mai sparare alle spalle. Basta questo per sentirsi in pace con la propria coscienza?
Grande Renato! Il codice del bandito è che non parti mai per uccidere. Però certe volte non puoi tirarti indietro. Però sfatiamo il mito che i poliziotti intimano “mani in alto, polizia!”, perché non è vero. Prima ti sparano e poi te lo dicono. A me non l’hanno mai detto. Il poliziotto è un essere umano come tutti e se si sente in pericolo ti spara. Noi banditi siamo nel torto, stiamo facendo cose illegali e non ci piangerà nessuno. Invece lui sta facendo il suo dovere. Sono cose risapute tra banditi e poliziotti. E io bandito penso: mal che vada faccio un po’ di galera, peggio c’è l’ergastolo e peggio ancora solo la morte. Allora ti armi fino ai denti e ti “tuteli”. Ma bisogna essere matti per fare la vita che abbiamo fatto noi.
Quando le ho citato Vallanzasca ha detto “grande Renato”… mi sembra di capire che lo stimi.
Renato ne ha fatte di tutti i colori, però ha pagato tutto. Più di 40 anni di carcere. Insomma, bisogna capire che in Italia non c’è la pena di morte. In un altro stato saremmo già stecchiti, però le nostre leggi recitano che se si capisce che c’è un ravvedimento ci può essere anche una opportunità. Sennò togliamo questa possibilità e vaffanculo! Quelli che sbraitano sul fatto che dovremmo morire in galera non ricordano o non sanno che negli anni ’70 e ’80 i detenuti si uccidevano a vicenda perché erano senza speranza. L’osservazione e la relazione finale su di me è durata 20 anni da parte di fior fiore di specialisti e hanno ritenuto che non fossi più un pericolo, per cui eccomi qui.
Eccola qui per grandi progetti. Ho sentito parlare addirittura di una serie su Netflix ispirata alla sua storia.
Ti dirò di più: c’è in lavorazione un film internazionale con un regista premio Oscar. Il titolo sarà: “Il Doge veneziano”, con budget molto importante. Andremo anche in America, a Los Angeles, ma la prima sarà alla prossima mostra del cinema di Venezia. A breve invece realizzeremo un cortometraggio sulla mia vita, le riprese inizieranno a marzo-aprile con la Rai e poi a settembre la serie Netflix. Mio figlio Armando interpreterà la guardia del corpo del Doge. Robe da matti!
Qualcuno potrebbe accusarla di speculare sul suo passato di criminale, mentre invece sono tutti progetti utili a sostenere un sogno più grande e soprattutto di aiuto a chi ha bisogno, giusto?
Sì, ed è il minimo che posso fare. Da quando sono fuori ho abbracciato la causa dei bambini autistici, perché lo Stato non li aiuta. Al massimo i genitori ricevono poco più di 500 euro, ma come fanno a seguirlo? Per cui con i proventi dei libri, del film e della serie, realizzerò una grande struttura di 50mila metri quadri che costerà circa 6 milioni di euro che si occuperà delle famiglie con bambini autistici attraverso la terapia Aba (Analisi applicata del comportamento) e sosterrà anche le ragazze madri. Il tutto gratuitamente. Non voglio neanche donazione da parte di privati, la creazione di questo centro professionale sarà il mio modo per espiare il male che ho causato.
Ma è vero che è in programma anche un fumetto sulla sua storia?
Mi ha contattato la Marvel. Questa gente è impazzita, … Se lo racconto in giro non ci credono. Sarà perché ho scritto i miei libri con il cuore. D’altronde non sono uno scrittore: ho fatto la quinta elementare e la terza media l’ho presa in galera. Me l’hanno data per la disperazione. Il professore mi ha detto: “Ti promuovo così il prossimo anno non vieni più a rompere i coglioni”. Io sono fatto così, sono un po’ guascone. Ho 66 anni ma è come se me ne sentissi 33.
Ho visto che ha annunciato anche che a breve diventerà nonno. Se lo aspettava dopo tutto quello che ha passato?
(la voce gli si rompe dalla commozione) Credo che… finalmente mi sento un uomo degno di essere nonno. Mio figlio Armando ha 46 anni e non ci speravamo più, però ci è arrivato questo regalo e lo stiamo vivendo… guardi, è troppo bello, troppo bello. E devo ringraziare prima di tutto mia moglie Manuela, che mi ha sempre aspettato in tutti gli anni di carcere ed è ancora qui al mio fianco. È una donna speciale, poteva rifarsi una vita e invece mi ha amato incondizionatamente. Lei è un dono di Dio. Sono troppo fortunato, per questo i giorni che mi rimangono voglio dedicarli a chi non è stato fortunato come me.
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