Carmen Pellegrino è molto più che un’affermata storica e scrittrice.
È quella che si dice una personalità che “arriva”, con le parole su carta tanto quanto su quelle pronunciate. Una donna poliedrica, forse un poco irrequieta, capace di accompagnare dolcemente il lettore in un intercedere di concetti e osservazioni che portano a un qualcosa di davvero prezioso: la riflessione.
Già autrice di numerosi saggi storici, Carmen Pellegrino esordisce nel 2015 con il romanzo “Cade la terra”, nato dalla sua attenzione al recupero della memoria dei luoghi abbandonati per la quale ha coniato il termine “abbandonologa” ripreso addirittura dalla Treccani. Dopo il successo di “Se tu mi tornassi questa sera accanto” (2017) è da pochi mesi uscito per La Nave di Teseo il suo ultimo componimento narrativo dal titolo: “La felicità degli altri”. Con lui, ritorna finalmente nel panorama editoriale un po’ di sana ed affascinante letteratura: e quanto ci era mancata! “La felicità degli altri” è infatti un testo che non è solo avvincente, ma stimola il lettore tramite un sapiente inserimento di spunti che vanno da richiami poetici a fatti di cronaca, fino a inserimenti di parole ben ponderate appartenenti a contesti specializzati. L’ultimo romanzo di Carmen Pellegrino è la storia di una donna in piena ricostruzione di sé stessa, che tra fragorosi alti e bassi impara a familiarizzare con i propri “luoghi oscuri” fino a dar loro una nuova dimensione. La storia di un’infanzia difficile, di una ferita profonda, di una chiusura alla vita: un racconto che appartiene a tutti, perché in esso ognuno può rivedersi. Un libro incoraggiante, sì: perché stimola a indagare su noi stessi così come sul mondo che ci circonda, avvolgendoci stretti come quando da bambini ci coprivamo la testa con una coperta di lana, contavamo fino a dieci e poi ne uscivamo un poco più adulti avendo fronteggiato il buio.
Parlando dei vari temi affrontati nel libro e dei vari collegamenti con il mondo attuale, è nata una piacevole chiacchierata con l’autrice. Entriamo così in punta di piedi nel mondo solitario di Cloe (che poi è anche Anais, o Esoluna…) dalla sua distruzione fino alla timida rinascita. Un percorso possibile a tutti, abbracciando i nostri fantasmi: su questo Carmen, può davvero darci una mano.
“La felicità degli altri” è un romanzo di anastilosi: un termine specifico che indica la ricostruzione di un’opera danneggiata utilizzando per lo più le sue parti originali. Cloe, la protagonista, in effetti fa proprio questo: attraverso varie fasi di vita in cui arriva persino a cambiar nome cerca di fronteggiare le ombre del suo passato fino a redimersi. Cloe ritorna a vivere colmando i vuoti dentro se stessa: come si fa a riempire un romanzo basato sull’ “assenza” di così tanti spunti narrativi, sociali, psicologici e vitali?
Semplicemente lasciando l’assenza libera di agire. Dico spesso che questo romanzo nasce “per sottrazione”: una sorta di contrasto, come quando si pensa che la luce non esisterebbe se non fosse accompagnata dal buio. È una tendenza a dar voce al vuoto, la mia, che nasce senza dubbio dalla pratica di “abbandonologa” con la quale a colpi di parole restituisco la vita a luoghi desueti. Ad un primo impatto, in un posto abbandonato ci sono solo ciò che chiamiamo “rovine inutili”. Nel farlo, ci dimentichiamo però della loro enorme potenzialità: quella di riempirsi di significato attraverso lo sguardo di chi le osserva. Ed ecco che ogni maceria torna a nuova esistenza nel ricordo di ciò che è stata, filtrata attraverso la carezza della nostra fantasia! C’è così tanta vita che pulsa, all’interno di ciò che crediamo ormai spento: basta spingersi un poco più in là, facendo un passo in avanti verso il prossimo mentre ci apriamo, ci sentiamo e, cosa molto importante, ci lasciamo percepire smettendo dunque di essere invisibili. Cloe, la protagonista, è proprio come un paese ridotto in frantumi: nella storia, si trova a convivere con i resti della sua esistenza per poi prenderli in mano uno ad uno in un percorso che la porterà a muoversi molto, sia geograficamente che internamente, fino a trovare finalmente la sua identità già più volte cambiata nel corso degli anni. È una spasmodica ricerca di accettazione; un gioco di voragini che non schiacciano più, di “luoghi oscuri” che non tolgono più il sonno ma che tramite un tortuoso intercedere diventano persino buoni amici.
“Luoghi oscuri”, dici. Non è un caso allora che in apertura del romanzo conosciamo Cloe a Venezia, durante un corso di “estetica dell’ombra” tenuto dal particolare personaggio del Professor T.
Se esistesse un corso simile anche nella realtà, sicuramente farebbe bene frequentarlo. Il Professor T. è certamente una figura chiave del romanzo, che insegna a Cloe a familiarizzare con i propri fantasmi. Chiusa nella sua solitudine, il suo rapporto con il professore riesce ad aprire un varco in sé stessa attraverso un semplice gioco di sguardi. Sono due anime tristi, lei più diffidente lui più aperto, che si “riconoscono”: ognuno è lo specchio dell’altro ed è proprio questo venir percepiti che fa scattare in Cloe qualcosa di diverso, che l’accompagnerà in alcuni cruciali passi della sua esistenza. Con il professor T, le ombre diventano “fedeli compagne che ti indicano un fosso prima di caderci dentro”: non temerle rende possibile ricomporre sé stessi fino al raggiungimento di un’armonia con il mondo.
Che poi, la storia del professor T. è ripresa da un fatto di cronaca realmente accaduto, così come altri disseminati nel romanzo.
Alla fine del libro ho inserito una lista con i rinvii bibliografici e gli spunti di cronaca inseriti nella narrazione. Non ero obbligata, ma ho voluto farlo nel desiderio che il lettore arrivasse non solo a sviluppare riflessioni personali ma anche una certa curiosità di approfondire l’attualità: ecco perché ho dato modo di attingere alle fonti dei fatti reali, che nei capitoli ho ovviamente modificato adattandoli alla trama. Oltre alla cronaca, ci sono poi molti rimandi poetici e letterari: è stato un lavoro lungo e vissuto durato infatti ben quattro anni. Mi sono presa il tempo di calibrare il romanzo affinché non risultasse troppo carico di emotività: volevo che non opprimesse, perché l’oppressione non rende naturale la nascita di considerazioni e pensieri.
In che momento, a fronte di un lavoro così complesso, hai compreso che la storia era pronta per i lettori?
A un certo punto, l’ho sentito. Ho completato varie riscritture fino a toglierne addirittura cento pagine. Quando ho fatto incontrare Cloe con il Prof. T , tuttavia, è scattato qualcosa. Cercavo una maniera di raccontare la vita della protagonista in modo che fosse universale: volevo che chi leggesse potesse sentirla sua, identificandosi in questo o in quest’altro suo lato. Non mi interessava solo raccontare le vicende di una donna: volevo che queste potessero creare un ponte con il lettore facendolo sentire meno solo. Ho seguito questo scopo e solo quando l’ho percepito raggiunto ho capito che il libro era pronto. È successo improvvisamente, durante l’intuizione di una giornata quando ho pensato che la vicenda di cronaca di un professore Veneziano potesse intersecarsi con le vicissitudini di Cloe. Le due vite a confronto hanno fatto sciogliere il nodo che fino a quel momento mi aveva bloccata, ed eccoci qua.
È certo però che il professore non è l’unico personaggio cruciale della storia. I temi affrontati sono davvero molti e con loro le personalità che ruotano intorno a Cloe: si parla del ruolo del padre e della madre, della solitudine, della condizione della donna e del tema della maternità, ad esempio. Su quest’ultimo, in particolare, il messaggio che lancia Beatrice è davvero notevole.
Si, è vero: Beatrice, la madre di Cloe, ammette di non essersi mai sentita adatta ad avere figli ma di averlo comunque fatto perché così le richiedevano famiglia e società. Ebbene, non è forse quello che accade anche oggi? È uno spunto di riflessione importante. Nascere donne, da sempre significa automaticamente procreare: chi non lo fa, per scelta o per situazioni difficili, viene spesso additata e giudicata dalla famiglia d’origine. Beatrice lo ammette con serenità, quando spiega di aver comunque fatto tutto il suo possibile per curare i suoi figli al meglio sebbene non li avesse cercati. C’è molto del ruolo della donna in questo romanzo: ognuno spero prenda ciò di cui più ha bisogno. C’è molto anche del rapporto con i genitori, dove quello con il padre è spesso più sotterraneo mentre quello con la madre più preponderante: ecco perché ho deciso di non far mai pronunciare la frase “mia madre” a Cloe (se non in un certo momento, ma questo lo scoprirete leggendo). Si parla dunque semplicemente di “Beatrice”, a volte persino solo di “XX” : un distacco che coinvolge il lettore, aiutandolo a far più sua la vicenda, se mai dovesse occorrergli.
Cloe sembra quasi capirla sua madre, o no?
In “La Felicità degli altri” c’è un ritorno al villaggio d’origine, quello della nostra infanzia: un affrontare le ombre del passato che ci hanno spesso visto incanalare nei nostri genitori, o negli altri in generale, tutta la nostra rabbia. Cloe ha una profonda ferita data dall’abbandono e dal non sentirsi amata. La sua vita è una stratificazione di senso di colpa e di assegnazione, di colpe. Il dolore per lei è stato talmente forte che, crescendo, ha dovuto necessariamente diluirlo assegnandolo agli altri: il primo capro espiatorio di tutto questo odio è stata la madre. Sai, i genitori vengono da noi automaticamente incasellati in ruoli che li vedono amarci sempre e incondizionatamente, ma non è la regola: prima di essere chi ci ha dato la vita, infatti, sono semplicemente esseri umani fallibili. “Il dolore dei colpevoli non è meno doloroso di altri dolori”, dice Beatrice; e Cloe, quando si ritrova improvvisamente a lavarle la dentiera, sembra comprendere qualcosa.
Non è forse così che si torna a riconciliarsi con la vita? Fronteggiando le ombre, perdonando: uscendo dalla zona di comfort?
È un paradosso, lo so: eppure quello che più ci fa paura diventa anche ciò che più ci rassicura. È più facile rimanere tra i nostri fantasmi, che sono comunque consueti, piuttosto che tentare di scardinare le nostre paure. Abbiamo terrore dell’ignoto senza pensare che questo ci porterebbe un beneficio, insieme a un nuovo cammino da percorrere. A volte questo passo lo si fa, ma ci vuole tempo. Prendi la psicoanalisi, per esempio: ne hai mai viste di brevi? Le nostre paure sono come le mura di casa propria: “me le sono costruite e comunque siano non voglio distruggerle!”, diciamo. Chi almeno una volta nella vita non si è trovato come Cloe, a doversi costruire di nuovo?
Credo nessuno ne sia immune, anzi: molti provano a farlo con i social trovando una strada tanto semplice quanto fasulla. La tecnologia ha cambiato molti modi di essere, soprattutto in epoca pandemia. Nel libro ne parli in maniera molto spiritosa.
In un certo momento della sua vita, la protagonista cerca di ricostruirsi un’immagine attraverso i social. Compone dunque un’identità virtuale che non le corrisponde, ma che nel consenso ricevuto le dà sostanza e forza: per la prima volta seppur per un breve periodo, ha avuto l’illusione di piacere. Che il confine tra tecnologia e realtà sia effimero lo scoprirà presto, quando si troverà coinvolta in una disputa a colpi di commenti scaturita per un motivo più che mai futile. I like vengono meno e con loro, ancora una volta, l’autostima di Cloe. Succede anche nella vita giusto? Nei social, in un secondo puoi trovarti oggetto di un odio inarginabile: un astio che ha ricadute anche nella vita reale, soprattutto in tempo di Covid quando la tecnologia è spesso l’unica finestra di interazione sociale. Tutto questo è tremendo: ci si espone tantissimo a un dato così imponderabile come il consenso degli altri. Ecco perché spesso ci spaventiamo, e scappiamo anche da situazioni che potrebbero farci star bene, se coltivate in modo congeniale.
In effetti, Cloe pare attaccarsi a molte situazioni per poi da queste allontanarsi. La narrazione sembra seguire questo passo, partendo col dare molte informazioni fino a procedere rendendo il tutto più “essenziale”.
Questo romanzo è stato definito di “antiformazione”: una parola in cui mi sono ritrovata molto e che indica il non seguire con precisa regola l’evoluzione della protagonista dalla fanciullezza fino alla maturazione. A un primo impatto in effetti lo sembrerebbe, avendo di Cloe una panoramica in quasi ogni fase di età: eppure, a poco a poco, di lei perdiamo i pezzi. Inizialmente, infatti, elementi e ricordi si mescolano tra loro in un caos di informazioni che vanno poi a perdersi mano a mano che aumentano i capitoli. Il motivo è da ricercarsi nella stessa Cloe, che si sfalda e si ricompone ogni volta perdendo qualcosa e ricostruendone un’altra. Parallelamente procede la lingua del romanzo: ci sono molte parole iniziali fino ad arrivare a paragrafi sempre più brevi. Volevo seguire l’essenzialità: togliere gli orpelli a poco a poco sfrondando elementi che non servono al fine di raggiungere il nucleo originario della nostra vita, che coincide con le ferite che ognuno di noi porta dentro. Da questa raggiunta semplicità, finalmente, la riconciliazione con l’esistenza per mano di Eros: un pulsante desiderio di esistere.
Cosa c’è di Carmen Pellegrino in Cloe?
Mentre il mio secondo romanzo “Se tu mi tornassi questa sera accanto” è davvero molto autobiografico, in “La felicità degli altri” ho lasciato questa grande emotività creando un distacco personale che permetta all’universalità dei lettori di legarsi con la storia. E così, mentre nel precedente c’era molta me disseminata tra le pagine, questo libro nasce per tutti e di tutti. Se mi chiedi cosa c’è di comune tra me e Cloe, tuttavia, rispondo con il desiderio di muoversi nello spazio. Sono una da radici ideali, io, nel senso che ho sempre nella mente il luogo dove sono nata intendendolo come la “casa dove però non abito”. Vivo a Napoli da molti anni, ma ho sempre il trolley pronto. La pandemia in effetti mi ha tolto qualcosa a cui tenevo molto: il post pubblicazione di un libro, che mi portava a spostarmi in varie parti d’Italia. Il viaggio e il movimento mi fanno stare bene. Ho qualche problema con la definitività in effetti: penso sempre alle partenze, anche se poi per lunghi periodi non le porto a compimento. Mi basta averle in mente.
Immagino quindi che starai già lavorando a qualcos’altro: o ti prendi un poco di meritato riposo?
Ferma non so stare ed infatti, ho già qualcos’altro in cantiere. Per quanto riguarda la parte saggistica, sto lavorando a una ricostruzione storica che ha a che fare con la via Appia antica. Ho curato per la Fondazione Feltrinelli un libro che uscirà a breve, dove mi sono occupata delle parti biografiche di uomini e donne dell’800. E poi…sto già raccogliendo le idee per il nuovo romanzo! Vediamo cosa succederà.
Un ultimo consiglio per la lettura de “La felicità degli altri”?
Ci sono davvero molti temi, in questo romanzo: ognuno potrà focalizzarsi su quello che sentirà maggiormente suo. La sua magia, in fondo, è questo suo poter essere letto in base al sentire personale: chiunque può far diventare il baricentro della narrazione questo o quest’altro dettaglio. Il messaggio che più aleggia tra le pagine riguarda la “possibilità”. Quella di ricostruire sé stessi partendo dal buio, familiarizzando con i dolori del nostro vivere siano questi parte del presente o del passato. Ad aspettarci, in fondo, c’è sempre lei: la vita.