Un'amicizia è l'ultimo romanzo scritto da Silvia Avallone e pubblicato dalla casa editrice Rizzoli. Al centro della narrazione due amiche Elisa e Beatrice, diverse ma complementari, che si troveranno a dover condividere gioie e dolori, separazioni e riavvicinamenti e che, soprattutto, dovranno imparare a proprie spese cosa voglia dire lasciarsi alle spalle un'età spensierata, quella dell'adolescenza, per vedersi donne adulte alle prese con una vita che forse non le rispecchia appieno. Questo romanzo abbraccia ogni tipo di generazione, come ci ha spiegato l'autrice, e ci consegna le chiavi del nostro tempo.
Raccontami la genesi di questo libro.
Guarda, per me ha proprio un ruolo speciale perché desideravo proprio fare i conti con me stessa, con quello che avevo scritto in precedenza, per chiudere una stagione e aprirne una nuova, desideravo fare i conti con questi vent’anni che hanno cambiato un po’ le vite di tutti, compresa la mia, con l’arrivo del web, dei social network, e quindi ho voluto ricostruire le fila di questa rivoluzione per come lo è avvenute nelle nostre case, nel nostro modo di pensare, nelle nostre amicizie e infine volevo anche sfidare le mie paure rispetto ai social, al come raccontano la vita e anche le mie paure rispetto alla femminilità. Avevo proprio voglia di liberarmi di tanti stereotipi con cui siamo cresciute e che la società ci ha inculcato e riprendere anche la complessità, il mistero dell’essere donne che ho cercato di scavare attraverso queste due protagoniste.
Quanto ti piace indagare l’universo femminile?
È una necessità. Nel senso che piano piano, crescendo, è come se non finissi mai di liberarmi di semplificazioni che la nostra società ci ha suggerito un po’ ovunque. Io ad esempio sono cresciuta in una famiglia molto libera dove ho respirato una parità, anche a scuola l’ho respirata, però altrove dalle pubblicità, alle battute che ti fanno per strada, si capisce che è una parità tutta da ripensare, da costruire e per me l’amicizia femminile è sempre stata una specie di sorellanza in cui ci sia una componente di libertà, di scelta di chi vogliamo essere indipendentemente dalla società che ci chiede di essere o madri o mogli o zitelle... c’è sempre qualcosa di negativo rispetto all’indipendenza che ancora fa paura, invece per me è un valore fondamentale perché noi donne siamo innanzitutto delle persone complesse che non devono essere schiacciate in nessuno stereotipo e non devono essere sempre coloro che fanno un passo indietro per la felicità altrui, quindi a me piace indagare anche dentro la famiglia tutte le asimmetrie che ci sono ancora oggi e che, secondo me, aumentano l’infelicità di tutti: donne, uomini e figli.
Le due protagoniste sono: Beatrice ed Elisa. La prima rappresenta l'apparenza che ha bisogno di essere documentata attraverso i social, mentre la seconda rappresenta quegli anni che non esistono più dove i ricordi si affidavano a un diario segreto. A questo proposito, riprendo una frase del tuo libro: “La vita ha davvero bisogno di essere raccontata per esistere?”
Per me scrivere un romanzo è anche leggere romanzi e questo significa aggiungere domande alle domande, poi una soluzione non la trovo mai, cambio spesso idea perché la mente è complessa, anche se io parto dalla convinzione che sia la letteratura il luogo che ci può raccontare in tutta la nostra verità e come Elisa io sono una grande fan della letteratura e io credo davvero che nella letteratura ci sia tutto l’invisibile della nostra anima, dei nostri pensieri che magari non diremo mai ad alta voce, i vuoti, i conflitti... tutto ciò che sui social, almeno fino a prima della pandemia, era difficile dire e la vita sembrava raccontata solo nella sua felicità, semplificata in degli istanti, in dei sorrisi, però poi c’è tutta la storia dietro a quelle immagini, quindi io sono partita da questo scontro tra due modi di raccontarsi: quello di Elisa attraverso le parole e quello di Beatrice attraverso le immagini, il web e li ho messi a confronto. All'inizio andando per opposizione, poi naturalmente ho complicato un po’ le cose. Ogni racconto strappa al silenzio e alla dimenticanza una vita, quindi secondo me dobbiamo raccontare, però dobbiamo raccontare nella maniera più onesta possibile e ci sono anche cose che probabilmente non racconteremo mai, che moriranno con noi e ci sono cose invece che raccontiamo, ma forse non serve poi così tanto raccontarle, quindi per essere interpretata, questa domanda ha bisogno di tante risposte.
Nei tuoi libri compare sempre la provincia. Come mai?
L’Italia, se ci pensi, è tutta una grande provincia e io credo che essere donna di provincia sia qualcosa che farà parte di me per sempre e che riuscirò a raccontare solo la provincia che per me è davvero una condizione esistenziale dell’anima che ti porti dietro anche se poi emigri in una metropoli. Vivere e crescere in provincia, soprattutto durante l’adolescenza, significa avere spesso molta fame e sentire che non sei al centro del mondo e infatti, in questo romanzo, quando si legge che Elisa da Biella arriva a Bologna, si fa riferimento al mio arrivo a Bologna, all'euforia nel sentirsi in un mondo così grande in cui tu ti senti libero e poi però succede sempre che si desidera ritornare in provincia perché la provincia è una madre di cui tu non ti puoi liberare, di cui senti sempre il bisogno anche perché quella comunità, che ti sta stretta perché ci si conosce tutti e che ti giudica, è anche quella comunità che non ti fa sentire sola. È una radice che sta al cuor della tua identità ed è anche quel luogo che ti insegna a sognare.
All'interno del romanzo, si assiste anche ad un conflitto generazionale. Secondo te, chi sono i ragazzi che vivono la società di oggi?
Quello che penso è che si nota, in maniera prepotente, una volontà di uscire da quegli stereotipi che vertono ancora su cosa deve essere donna, su cosa deve essere uomo, ovvero su queste distinzioni nette fra maschile e femminile. Nel mio libro Elisa e Beatrice ereditano questo dolore da due madri che sono state chiamate a fare un passo indietro, a soffocare i propri sogni per prendersi cura delle figlie da sole, invece quello che si percepisce nella realtà è la volontà da parte degli uomini di voler essere genitori tanto quanto le proprie compagne, ma non solo. Vedo, ad esempio, a Bologna, famiglie diverse: con due madri, due padri e bambini felici e piano, piano si nota la volontà di uscire da una famiglia tradizionale che ha causato, nel corso degli anni, tanta infelicità e vedo, soprattutto nei più giovani, il bisogno di sperimentare delle forme di felicità uniche perché non esiste un unico modo per essere felici. Io credo davvero che dobbiamo prenderci cura della felicità e ognuno deve poter esprimere la propria voce in maniera autentica e la mia speranza è proprio questa: cercare di cambiare il tipo di relazioni, in maniera libera, senza voler soffocare l’altra persona, anzi aiutandola a diventare se stessa.
Quanto ci ha cambiati la pandemia?
Io penso che lo capiremo col tempo perché siamo passati in maniera brusca da una società che dava tantissimo valore all’apparenza, all’accumulare delle cose, in cui si viaggiava tanto e c’era un eccesso di individualismo e di consumismo e, francamente se non tornasse più io sarei contenta, ad una società di privazioni. Naturalmente sta a noi fare di queste privazioni, di questo dolore, di quest'ansia, di questa sospensione, un’occasione per aggiustare il tiro, per dare nuove priorità. Io penso al nostro rapporto con l’ambiente, alla scuola che per me è un tema grandissimo ad esempio... e credo fermamente che stia a noi reagire in maniera costruttiva per cambiare ciò che ci circonda.
Cosa ti manca del periodo pre-pandemia?
Mi manca il poter andare a trovare i miei genitori e abbracciarli perché quando ti manca tutto riscopri quali siano le vere priorità, soprattutto la vicinanza degli altri, l’essere comunità, il prendersi cura dei nostri territori che, in zona rossa, non abbiamo potuto abitare e spero che questa privazione ci abbia fatto capire quanto invece dobbiamo rivolgere gli occhi all’esterno ed essere persone che si prendono cura del proprio mondo.
Il tuo romanzo affronta temi di grande attualità: i social, l'apparenza, il cambiamento, l'adolescenza...
Io ho scritto questo romanzo con una certa spudoratezza che ho a lungo ricercato ed è speciale perché c’ho messo tutta l’anima e l’ho scritto attraverso una prima persona, la voce di Elisa, per la prima volta e ho voluto davvero affrontare delle questione che riguardano me, ma che possono riguardare un po’ tutti: la difficoltà di diventare adulti, di dire addio all’adolescenza, la difficoltà di superare l’amicizia finita che però è stata così importante per costruire la tua identità, il passaggio dalla vita segreta senza cellulari ai social, raccontata ogni giorno, e quindi penso che questo libro possa essere letto da uomini e donne di ogni età. È chiaro che io amo particolarmente gli adolescenti perché sono fragili e non sanno ancora chi saranno da grandi e per me loro saranno sempre dei lettori speciali.
Si può definire il tuo romanzo “femminista”?
Io non amo le definizioni perché riducono la complessità delle cose, però senza dubbio io ho proprio attraversato in questo romanzo la questione e ho riflettuto sull’esigenza di liberarci dai nemici esterni, ma anche da quelli interni che abbiamo introiettato fin da bambine con la principessa, il principe... stereotipi questi che ci hanno messo all’angolo, quindi da questo punto di vista assolutamente sì.