Il corpo elettrico, scritto dalla giornalista Jennifer Guerra e pubblicato dalla casa editrice Tlon, è un libro necessario perché di femminismo non se ne parla mai abbastanza. Al centro della narrazione il corpo delle donne, spesso maltrattato, abusato, vilipeso, che oggi può diventare strumento politico ed essere considerato simbolo di riscossa sociale.
Per saperne di più, abbiamo intervistato l’autrice.
Iniziamo dal titolo. Perché il tuo libro si chiama Il corpo elettrico?
Il titolo deriva da una poesia di Walt Whitman che si intitola appunto Il corpo elettrico. Questa poesia è stata provvidenziale perché mi sono accorta che era una poesia che esprimeva benissimo un concetto di femminismo che cerco di spiegare in questo libro, ovvero che non c’è una gerarchia tra il corpo e l’anima e che anche il corpo può essere considerato un mezzo di conoscenza che ha una sua dignità, una sua importanza e, soprattutto, questa poesia lo celebra nella sua dimensione più semplice, fisica, carnale, quindi ho pensato che fosse perfetta per esprimere sia questa idea dell'assenza di una gerarchia fra corpo e anima, ma anche di una fusione, un’unità e poi mi piaceva l’immagine di un corpo elettrico come di un corpo straripante in grado di accendere qualcosa.
Come è nata l’esigenza di parlare del corpo delle donne?
Questo libro è nato quando io ho cominciato a lavorare come giornalista e ad occuparmi, quasi quotidianamente, di questioni cosiddette femminili e più in generale della questione dei diritti riproduttivi che a me sta molto a cuore e poi in quel periodo ho seguito, anche se per poco tempo, un progetto di educazione sessuale su Instagram e mi sono resa conto, confrontandomi anche con ragazzi molto giovani, che seppur la nostra società sia ipersessualizzata, in realtà c’è poi questo distacco dell’uso che se ne fa, della conoscenza che se ne ha e anche dei discorsi che si fanno sul corpo che sono sempre mortificanti, soprattutto per queste ragazze giovani e mi metto dentro anch’io ovviamente, e quindi il libro è nato in questo clima.
Oggi si può parlare di una nuova ondata del femminismo?
Sì, senz’altro. Oltre alla percezione personale che ne ho, occupandomene, vedo che c’è un grandissimo interesse delle giovani donne, ma non solo anche delle donne adulte che si stanno interessando al femminismo solo ora. C'è stato comunque negli anni Duemila un distacco dove si percepiva il femminismo come qualcosa di passato, di non necessario; adesso invece si è ritornati a parlarne in maniera mainstream, quindi non necessariamente negli ambiti che se sono sempre occupati perché il femminismo c’è sempre anche nei momenti in cui ci sembra più silente. Le femministe ci sono e svolgono le loro attività anche se magari l’attenzione non è focalizzata su di esse.
Cito una frase del tuo libro: “il corpo è un soggetto politico”. Che messaggi può veicolare all’interno della nostra società?
Il corpo, oltre alla sua dimensione fisica, immediata, ha anche un valore simbolico e come cerco di spiegare nel mio libro non c’è soltanto la dimensione privata del corpo, ma c’è anche una dimensione politica o, se vogliamo pubblica, nel senso che noi donne crediamo di essere padrone e uniche titolari dei nostri corpi, ma in realtà i nostri corpi sono continuamente sottoposti al giudizio e allo sguardo maschile soprattutto, ma poi anche a delle questioni politiche che magari noi non percepiamo come tali. Faccio un esempio banalissimo: l’IVA sugli assorbenti è una questione puramente politica, economica, però riguarda il nostro corpo nella sua materialità, il nostro essere donne nella nostra dimensione quotidiana.
Secondo te, siamo ancora vittime del patriarcato?
Sì. La società, e ancor più la società italiana, è molto moralista, bigotta, familista ed è una società fortemente patriarcale. So che è un termine che può confondere perché ci viene in mente la figura del padre-padrone, ma la nostra è una società fondata sul potere maschile che si esercita seguendo delle dinamiche che non pongono la donna al centro del discorso, ma come un’eventualità e sicuramente i diritti che le donne hanno sulla carta, non sono sufficienti a dire che esista una parità e che non esista una società patriarcale.
Assistiamo ad un’evoluzione del linguaggio e termini quali body shaming, femminicidio, solo per citarne alcuni, sono entrati a far parte dell’uso comune. Quanto può aiutare incasellare un fenomeno per rendere consapevole la società di ciò che sta accadendo?
Sì, dare un nome alle cose serve per riconoscere la loro esistenza. Ad esempio, io nel mio libro cito l’habitual body monitoring che è un termine che io non avevo mai sentito prima di fare le mie ricerche e ho notato che molte persone sono rimaste colpite da questo termine e questo dà l’idea di come dare un nome ad una cosa sia stato per molti liberatorio. Questo è l’aspetto positivo. A volte capisco però che questa pratica di voler nominare qualcosa, rischia di trasformarsi in un esercizio di correttezza perché noto che si manifesta più un’urgenza nel correggere qualcuno che usa un termine improprio piuttosto che far capire cosa significhi quel termine in sé. Ecco perché io non mi attacco troppo alla questione linguistica, anche se capisco che è una questione importantissima perché più i termini vengono utilizzati e più vengono normalizzati.
Tu hai scritto un articolo in cui parlavi dello shadowban. Cosa ne pensi?
Sicuramente c’è un problema di come i social si pongono rispetto all’espressione della corporeità femminile e io personalmente trovo assurdo che, ad esempio, Mark Zuckerberg, citato nell’articolo, quest’anno abbia finalmente vietato di negare l’Olocausto su Facebook e che si sia trovato in difficoltà nel decidere tra la libertà d’espressione nel dire che fosse una fake news e i danni che il negazionismo e l’Olocausto provocano o hanno provocato nel tempo. Di contro, da quando esiste Facebook un capezzolo femminile è stato sin da subito nascosto, quindi mi sembra di capire che ci sia un pregiudizio di fondo che riguardi le donne e per quanto possiamo dire che Facebook o Instagram siano luoghi democratici in realtà riflettono la visione del mondo dei loro proprietari.
C’è una frase del libro in cui si dice: “La nostra esistenza è nelle nostre mani”. La sorellanza può essere una soluzione?
Sì, lo è. Io credo che la vicinanza tra donne abbia un potere straordinario nell’opporsi alla società in cui viviamo che pone l’uomo, nella sua individualità, come soggetto privilegiato. Se impariamo a pensare in un’ottica femminista le donne hanno adesso la possibilità di far valere la propria soggettività come gruppo, quindi il fare rete può portare all’affermazione della donna all’interno della società.
Tu sei per un femminismo inclusivo?
Sì. Io credo che gli uomini si debbano occupare anche di femminismo e sono favorevole all’ingresso degli uomini nei movimenti femministi e al contributo che possono apportare perché sono i nostri veri interlocutori ed è inutile pensare che si possa apportare un cambiamento se si esclude la metà della popolazione, ma mi piacerebbe che questo impegno lo assumessero gli uomini e che non siano solo le femministe a doverli per forza includere.
Il rispetto per la donna si insegna sin da piccoli?
Questo è un argomento importantissimo e anche nel mio libro dedico un capitolo all’educazione dei bambini, nonostante io abbia poca esperienza, però penso che sia fondamentale, oltre che educare al rispetto, che è una cosa che vuol dire tutto e niente, non ingabbiare i bambini all’interno di un ruolo fin da quando sono piccoli perché credo che sia questo che porti a certi modi di vivere il proprio genere che, fra l'altro, possono risultare tossici per sé o per gli altri. Per cui più che una generica educazione al rispetto, che sta alla base di qualsiasi rapporto umano, bisognerebbe evitare che i bambini si facciano piacere delle cose che non siano legate canonicamente al loro genere.
All’Università Statale di Milano hanno messo finalmente un distributore di assorbenti. Perché l’Italia è così lenta nell’affrontare un cambiamento?
L'Italia è uno dei pochissimi paesi in Europa che non fa educazione sessuale obbligatoria. Questo è un enorme problema perché, oltre a privare dell’educazione sessuale gli adolescenti, può capitare che ci sia il rischio che nelle scuole possa essere affidata ai preti ed è ovvio che se noi ragioniamo in un’ottica di libertà di pensiero, essi non potranno mai rispondere agli standard che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito per l’educazione sessuale, ovvero che sia depatologizzante, inclusiva anche delle soggettività non eterosessuali e non cisgender... cioè ci sono delle cose che vengono puntualmente ignorate e che rischiano di trasformarsi in una serie di moralizzazioni che portano alla vergogna dei corpi ed è chiaro che se non si possono affrontare dei discorsi liberi dai pregiudizi, questa cosa ce la trascineremo per sempre. Anche perché non tutti i figli hanno dei genitori aperti e, ricordiamo, che ci sono ancora ragazze che non hanno una minima educazione su come funzioni il ciclo mestruale perché appartengono ad una famiglia bigotta.
Il Gender Pay Gap è evidente nel nostro paese e i dati sono allarmanti. Tu cosa ne pensi in proposito?
Se noi guardiamo al Gender Pay Gap basandoci sul guadagno mensile, noi siamo uno dei paesi migliori d’Europa paradossalmente, ma la situazione si ribalta totalmente se noi osserviamo l’Overall Gender Pay Gap, un dato che non tiene conto solo dello stipendio mensile, ma anche della qualità del lavoro, dei contratti che vengono stipulati, quindi di tutta una serie di fattori reali che servono per comprendere meglio la situazione e se noi ci basiamo su questo dato, scopriamo che siamo fra gli ultimi paesi d’Europa. C'è un grosso problema nella tipologia del lavoro che svolgono le donne che è ancora di bassa qualità, soprattutto dal punto di vista contrattuale. Per non parlare poi del fatto che moltissime donne lasciano il lavoro nel momento in cui formano una famiglia oppure hanno il congedo part time involontario, che non viene scelto, ma viene imposto ed è ovvio che si crea un circolo vizioso pericoloso che rende le donne molto povere. In Italia più del 30% delle donne non ha un conto corrente, non ha soldi propri, non ha un reddito e nel momento in cui la coppia si separa, divorzia, o ancora peggio nei casi di violenza domestica, le donne si ritrovano ad essere nullatenenti e questo accade non perché sono pigre o non abbiano voglia di lavorare, ma perché le condizioni sociali per essere autonome dal punto di vista economico sono peggiorative verso di loro.