Ormai le levate di scudi contro la “letteratura commerciale” o, meglio, popolare, sono il liquido trasparente delle flebo nel reparto di lunga degenza della critica letteraria. Gente che ha amato Dante ma, non sapendo davvero amare, non riesce a lasciarsi andare con Stephen King o Carlos Ruiz Zafón. Harold Bloom imputava proprio al primo dei due una scrittura «frase per frase», paragrafo per paragrafo, senza visione d’insieme. E molti oggi sputano su J. K Rowling, colpevole di aver prodotto una saga di genere che ha saputo superare le generazioni. Un tempo Calvino avrebbe detto che il classico era il libro che ancora aveva da dirci qualcosa, nonostante il tempo fosse passato. Ma per la letteratura popolare no, almeno secondo Alberto Casadei, critico letterario e autore su La Lettura del Corriere della sera di un pezzo dal titolo Il Canone alternativo, in cui si mettono a confronto un canone dei critici (detto “Canone critico”) e un “Canone social” (quello decretato da influencer e TikToker che consigliano Erin Doom e altri romanzi oggi bestseller).
Non è chiaro come si passi da canone dei critici a Canone critico, se non postulando che il Canone social di “critico” abbia ben poco. Cosa che potrebbe anche essere vera, se solo Casadei fornisse un’unità di misura, una metrica, per capire cosa sia critico e cosa no; mentre sembra preferire un appello all’autorità, in pieno stile scolastico: critico è ciò che il critico fa. Così, a differenza del “motto” calviniano sui classici, per Casadei il Canone social non esisterebbe perché quei titoli avrebbero da dirci ancora qualcosa, bensì perché il potere concentrato «in pochi brand» (influencer?) darebbe il patentino di canone a pochi long-bestseller. Le intenzioni dell’articolo non soono neanche malvagie, perché il Canone social dovrebbe stimolare le scuole e le altre voci definitive «autoritative» a rendere dinamici i canoni, e ad aggiornare gli strumenti per attualizzare i grandi libri (soprattutto romanzi) della storia della letteratura.
Tuttavia, a buone intenzioni corrisponde un cattivo atteggiamento. Un atteggiamento da boomer. Basti pensare a questa forzatura dei due canoni non comunicanti. Per intenderci, è come il Papa che dice che l’omosessualità non è un crimine, ma resta un peccato, affermazione che sta facendo discutere da giorni. Stephen King e Neil Gaiman? Possono entrare nel nostro ristorante, ma si continueranno a portare le loro patatine fritte e i loro hamburger. Un atteggiamento quasi paternalista, del “padre” tollerante che dice cosa di buono recuperare da un canone “sbagliato”. «Questo piatto fa schifo, ma teniamo il piatto…». Il problema sarebbe una certa preferenza per alcuni generi «impermeabili» all’accademia. Horror, thriller, polizieschi e ibridi. Insomma, da Ilaria Tuti (non citata) a Stephen King (citatissimo), da Joël Dicker a Neil Gaiman, da Sophie Kinsella a… H.P. Lovercraft.
Ora, mettere Lovercraft e Sophie Kinsella nello stesso canone non è impresa del tutto campata in aria. In fondo, per Casadei non c’è parametro critico che tenga, sono solo una preferenza e un trend social a stabilire chi è dentro e chi è fuori. Certo, non è chiaro perché per alcuni autori (più apprezzati, forse, dal critico) che tranquillamente potrebbero primeggiare nel Canone social, si usino invece vari distinguo, in modo da potersi tenere nel Canone critico un Italo Calvino o una Elena Ferrante. Italo Calvino. Elena Ferrante. Michel Houellebcq. Autori che sui social sono, semplicemente, la regola. Non solo. Casadei evidenzia che parte del Canone social si sia affidato spesso al doppio binario del romanzo + serie/film. Ma nel caso di Elena Ferrante è esattamente questo ciò che è accaduto, da L’amica geniale a La vita bugiarda degli adulti. Perché allora è nel Canone critico? Forse è una questione di proporzioni. Rispetto a un Neil Gaiman, Elena Ferrante puzza meno di social perché non è letteratura di genere? O semplicemente perché, non essendo letteratura di genere, sembra più vicina a una Letteratura con la “l” maiuscola?
Questo, tuttavia, porterebbe a un regresso all’infinito dei canoni. A sinistra del Canone critico, infatti, potremmo mettere un Canone supercritico, e poi un Canone supersupercritico, e così via. Per esempio, Elena Ferrante è meglio di Sophie Kinsella, ma è più social di Anna Maria Ortese. C’è poi il problema dell’inganno, anzi del “prestigio”, come si usa dire tra gli illusionisti. Far sparire uno scrittore dal Canone social e farlo ricomparire dalla porta del Canone critico. Michel Houellebecq è questo, in fondo. Uno scrittore di moda, per il suo fare politicamente scorretto e per essere maschera di se stesso, nella speranza di poter essere assorbito nelle librerie degli appassionati di Miller, Céline, Cioran e Schopenhauer. Si tratta ovviamente di gusti, ma l’unico libro di Houellebecq che si regge sui suoi piedi mi sembra sia Estensione del dominio della lotta. Eppure finisce insieme ai classici. Calvino è poi uno scrittore quantistico, che potrebbe star bene in entrambi i canoni. Non è forse il Calvino delle Lezioni americane (certo non di Palomar) a campeggiare nelle pagine “buoniste” piene di foto di gatti, caffè e libri aperti sui tavolini? Tolte le contraddizioni, non resta niente, tranne il cattivo occhio dei critici per la buona letteratura. Peccato si tratti di due pagine in uno degli inserti culturali più importanti e seguiti d’Italia.