L’immagine migliore per capirlo è quella degli anni Sessanta. È sposato, in Texas, non ha un soldo e scrive libri dopo aver abbandonato la carriera da pilota. «“Vivevamo in totale povertà”, ricorda la moglie Annie DeLisle. Per quasi otto anni hanno abitato in una stalla, fuori Knoxville. “Ci facevamo il bagno nel lago. Ogni tanto qualcuno chiamava, gli offriva duemila dollari per parlare dei suoi libri in una qualche università. E lui rispondeva che tutto quello che aveva da dire era lì, sulla pagina. Dunque: avremmo mangiato fagioli per un’altra settimana”»
McCarthy non sembra uno dei suoi personaggi, lui lo è.
Ho capito che sarebbe morto quando ho saputo del doppio libro in uscita dopo dieci anni, praticamente un testamento prima di compiere i 90 anni, che non raggiunge per poco. Infatti è uno dei suoi migliori lavori. Aveva già scritto il suo commiato ne Il Passeggero: «Dovunque tu scenda, la destinazione del tuo treno è sempre stata quella. Ho studiato molto e imparato poco. Penso che uno come minimo dovrebbe augurarsi di vedere una faccia amica. Qualcuno al tuo capezzale che non ti auguri di bruciare all’inferno. Più tempo non cambierebbe niente e quasi sicuramente quello cui stai per rinunciare per sempre non fu mai quello che credevi».
Non dimentichiamoci che è stato definito persino su Robinson “fumoso” e confusionario. Fumoso vuol dire che è poco chiaro, che è difficile. Bene perdio, questo non è la robetta dello Strega che leggete mentre fate altro, qui parliamo di letteratura vera, roba che richiede un attimo di pausa. Tutti quei tizi fanatici della linearità e della trama, abituati a essere imboccati dallo scrittore, fanno fatica poverini. Oltretutto non scriverebbero come lui nemmeno se mangiassero i suoi libri o li ascoltassero registrati nel sonno seguendo quelle strane tecniche di apprendimento rapido che andavano di moda fino a pochi anni fa.
Per leggere McCarthy serve una buona dose di palle. Ti approcci alla sua pagina ed è complessa come quella di Faulkner, ne devi leggere almeno cento per capire che sta succedendo. Poi da una riga all’altra “zac” magari muore il protagonista. Nel mezzo c’è un magma di sentimenti e pensieri e violenza che viene dipanato in periodi lunghi e complessi, dal tono profetico e apocalittico. Un grosso corvo nero fa la ronda sopra la testa del lettore nel mezzo alla mesa o in una stazione di servizio di Santa Fe, circondato da cisterne abbandonate e messicani con il ferro sotto la giacca.
Tutto quello che sapete della lettura è fallace fino a che non avete letto lui. Non ci sono dei modi per definirlo. McCarthy è come i Pink Floyd degli anni Settanta, l’esaltazione della tecnica per la migliore esplosione del sentimento.
Io non ho gli strumenti. Mi spiego: ogni anno d’agosto rileggo Meridiano di sangue. Ho bisogno di farlo in estate, nelle estati più calde del secolo, per immergermi in una condizione psicofisica adatta. Il caldo deve farmi girare la testa, così posso entrare in simbiosi con The Kid che vaga nel deserto al confine col Messico dell’800 e vede le fiammelle blu nelle allucinazioni mattutine. Quando leggo McCarthy io sono dentro la pagina, dentro il libro, dentro la storia; io sono The Kid. Non penso ad altro nemmeno quando stacco. I discorsi del Giudice mi risuonano in testa anche a mesi di distanza, a volte me li sogno. Le scene è come se le avessi viste in un film. McCarthy è lo Spielberg della letteratura, uno degli ultimi in grado di fartelo venire duro con un vecchio oggetto di carta pieno di pagine ormai in disuso che si chiama libro nell’era dello smartphone, praticamente uno con doti ipnotiche, un mago. Se vi piacciono Murakami e altre mezze calzette del genere lasciate perdere.
Houellebecq dice che non bisogna sforzarsi a inventare nuove forme, che di innovatori in letteratura è già tanto che ce ne sia uno per secolo. Cormac è stato uno di questi. Quando vi approcciate a lui sappiate che è come entrare in una setta da cui non vorrete uscire più.
«Condividere la lettura anche di solo qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue», lo scrive Cormac ne Il passeggero. È vero, è così. Dici il suo nome in pubblico e guardi gli occhi di chi hai davanti. Se si accendono sai che hai trovato qualcuno con cui passare la serata.
Oggi non è un giorno di lutto perché è morto Cormac, ma perché non scriverà più. Il resto vivrà per sempre nella sua opera.