Giorni fa mi è capitato di guardare una serie piuttosto strampalata su Netflix, Sagrada familia. Attratto dal titolo, con chiaro riferimento alla cattedrale incompiuta di Barcellona, opera del genio di Gaudì, e dal fatto che comparissero come protagoniste Alba Flores, che in La casa di carta interpretava Nairobi, e Najwa Nimri, che sempre in quella serie iconica interpretava il commissario Alicia Sierra, mi sono ritrovato a seguire, distrattamente, una serie oscura, incentrata su figli morti e rapiti, con una trama volatile, difficile da seguire. O almeno, difficile da seguire per chi come me spesso tiene le serie lì come sottofondo, non potendo usare per questo scopo la musica, che mi distrarrebbe dalla scrittura. Al punto che spesso non so neanche di aver visto serie, anche di più stagioni, tanto è distratto il mio approccio, è successo recentemente con The Stranger, che ho scoperto di aver già visto sul finale, sottofondo, appunto. Sottofondo che in questi giorni si alterna con le partite dei Mondiali di calcio del Qatar, sì, io sono tra quanti ritengono il boicottaggio una boiata, non perché non sia deprecabile l’idea di spostare i mondiali in un paese che nega i diritti civili anche elementari, e che per costruire dal nulla tutti quegli stadi è ricorso allo schiavismo, con oltre seimila vittime del lavoro, ma perché ritengo che boicottare un programma televisivo in una tv pubblica, che comunque si prende il mio canone, sarebbe inutile, irrilevante, ininfluente. Avrebbero dovuto boicottarlo la FIFA, che però è complice, e le squadre di calcio, semmai, gli addetti ai lavori, il mio guardarlo o meno, dal momento che non scrivo di calcio, è del tutto irrilevante, ripeto. Ora, a parte, ripeto, un’aura oscura che ricopre tutta la serie, figa, è, intendiamoci, è spagnola e recentemente quasi tutto quello che televisivamente parlando arriva dalla Spagna è molto figo, ben scritto, ottimamente interpretato, ottimo anche a livello di trama e fotografia, una cosa che mi ha colpito è come, gira che ti gira, quasi tutto quello che appunto arriva da quelle parti sia interpretato dalle solite attrici, quasi sempre donne, le due su citate sono non solo protagoniste, certo coralmente, di La casa di carta, ma anche di Vis a vis, una serie sempre spagnola ambientata in carcere, qualcosa che sfiora davvero il plagio di Orange is the new black, credo di non dire niente di così clamoroso affermandolo. Non ci sono altre attrici? Poi, certo, penso a gente come Beppe Fiorello e Pierfrancesco Favino e capisco che le mie sono domande che per uno spagnolo risulterebbero abbastanza ridicole, e vado oltre.
Sto tergiversando, perché in realtà non era affatto di serie tv che volevo e voglio parlare, non scrivo di televisione, se non incidentalmente. Ma giorni fa, guardando l’ultima puntata di Sagrada familia, non è uno spoiler, ho sentito una vecchia storiella, anche piuttosto famosa, usata a mo di incipit dell’episodio. Riguarda le rane e come le rane vengono bollite. Esiste un modo e uno soltanto per cuocere una rana, metterla in una pentola piena di acqua fredda. Se la mettessero dentro una pentola d’acqua bollente, infatti, seppur malconcia, la rana scapperebbe via in un sol balzo, ferita e spaventata. Mettendola invece in una pentola di acqua fredda la rana, non sveglissima, è chiaro, rimane. A quel punto si tratta di aumentare progressivamente la potenza della fiamma sotto la pentola, il cambiamento impercettibile della temperatura, in quanto appunto impercettibile, la inddurrà a rimanere, finché non morirà, bollita. “La natura non è sempre lungimirante”, dirà il personaggio che racconta la storiella, parlando di istinto di sopravvivenza, non spiegherò chi è proprio per non rovinare la visione a nessuno, “anche la natura spesso è imperfetta”, qui suppongo tirando in ballo l’idea di famiglia intorno a cui ruota la serie, anzi, di famiglie, e ovviamente alla Sagrada familia di Gaudì, lì così, splendidamente imperfetta da sempre. Da questa storiella, come dal racconto riguardante questa storiella che finisce nell’incipit di questa serie tv, si evince che le rane non siano animali particolarmente svegli, perché anche se è vero che, almeno da noi in Italia, i ristoranti che propongono rane nel menù ormai si contano sulle punta delle dita, per lo più circoscritte per ragioni che mi sfuggono nel pavese, è pur vero che in genere di fronte a pericoli reiterati la natura provvede con delle sterzate brusche, dei cambi di percorso, leggevo proprio recentemente che i rinoceronti, a rischio estinzione a causa della caccia, il loro corno viene ritenuto carico di sostanze fondamentali per certe magie e riti, ha provveduto a salvaguardarsi trasformando quel caratteristico simbolo di potenza, anche virile, in poco più che un moncone, vai poi a capire se per darwinismo o più semplicemente perché la selezione naturale ha mandato avanti appunto i rinoceronti con le corna più minute, non così appetibili per i bracconieri. Loro no, parlo delle rane, se le metti dentro una pentola di acqua fredda si accomodano, accorgendosi della brutta fine che faranno, servite, presumibilmente fritte, in un piatto, cotte. E dire che di suo è animale considerato particolarmente scattante, con quei balzi da ferma che possono coprire fino a tre metri di lunghezza, come se un umano, senza rincorsa, potesse saltare oltre quindici metri. Anche simpatica, abbiamo visto tutti, oggi i social ci vengono assolutamente incontro da questo punto di vista, le rane provenienti dall’India, che provano a conquistare le femmine con i loro canti e le loro danze, le zampe palmate letteralmente sventolate a mo di bandiera, vedi tu come può far capitolare una rana maschio indiana una femmina indiana. Non è però tanto delle rane che voglio ora parlare, la rana e come la si possa bollire con l’inganno è solo una perfetta metafora di quel che da anni sta succedendo al sistema musica, noi e chiunque ami la musica, e l’ascolto della musica, nei panni delle rane, a breve capirete chi è che al momento è ai fornelli, a aumentare giorno dopo giorno la potenza della fiamma sotto la nostra pentola piena d’acqua.
Ciclicamente mi ritrovo a fare i medesimi ragionamenti. Sembro davvero uno di quei vecchi che ammorbano i pranzi di Natale raccontando ai nipotini di quando hanno fatto la guerra, e poco importa se la guerra, in effetti, non l’hanno fatta davvero. Il fatto è che il passato torna sempre su, come certi piatti a base di peperoni, buoni e tutto, ma indigeribili. Quindi ciclicamente mi ritrovo a ragionare su quel che sarà, parlo di musica e parlo di industria legata alla musica. Certo, stando a quel che si dice, e a dirlo è l’industria stessa, mai come in questo momento il settore gode di ottima salute, lo streaming ha compiuto il miracolo di ridare linfa vitale a un sistema che sembrava divenuto arido, per le major aver investito su Spotify e affini una vera manna, di più, la svolta. Poi, che si stia riscaldando la casa dando fuoco ai mobili e ai soprammobili poco conta, per ora fa caldo, e ce lo godiamo, questo sembrano dire, se in futuro si troveranno una casa vuota, beh, cazzi loro. A dirla tutta, oltre che a mobili e soprammobili, il repertorio d’archivio, su questo da sempre si reggono le major, sembra che stiano dando fuoco direttamente agli abitanti della casa, gli artisti, pagati una miseria, perché tanto che sarà mai un settore che sulla musica si basa senza coloro che la musica la scrivono e la interpretano? Per questo, anche per questo, guardo al futuro con i filtri del dubbio, per non dire per quelli di San Giovanni quando stava per mettersi a scrivere il Libro dell’Apocalisse. Se dico che è “anche per questo” che sono pessimista, apocalittico, è perché, a dirla tutta, non bastassero le scelte scellerate in fatto di spartizione del bottino da parte delle case discografiche, gli artisti lasciati a mangiare le briciole sotto il tavolo, c’è proprio la musica che viene veicolata che è la parte preponderante del problema con lo streaming. Mi spiego, oggi gira una musica piuttosto omologata, piatta, sciatta. È la musica che va per la maggiore, e come spesso capita, quando qualcosa diventa di moda, guai a non assecondarlo. Il problema è però che questa musica, genericamente identificata come “musica demmerda”, è figlia proprio del supporto con cui verrà ascoltata, quasi sempre gli smartphone attraverso le piattaforme di streaming, Spotify in testa. Succede da tempo, che la musica risponda direttamente al supporto che la veicola, almeno da quando si è smesso di guardare ai supporti come qualcosa in grado di rendere replicabile, in radio e a casa, inizialmente era impensabile l’idea di avere la musica sempre addosso, come ora. In poche parole, quando si è concretizzata l’idea di incidere musica, visto che era una novità, la musica che finiva dentro i dischi era quella già esistente, le grandi opere classiche, sicuramente, o la musica popolare. Da che i dischi sono cominciati a finire sul mercato, nel senso, dal momento in cui il mercato discografico è uscito dal recinto della nicchia, ambendo a un grande pubblico, si è cominciato a guardarlo come a qualcosa da costruire, a monte. Così si è lavorato a singoli che entrassero nel lato di un 45 giri, quello era il supporto, e poi a album che durassero quanto i due lati del 33 giri. Anche quando la musica provava a forzare questi limiti, penso al prog, con le sue suite, i limiti imposti dai due lati, era insuperabile, con quello si doveva ragionare e con quello si ragionava. Certo, si poteva sperimentare, vedi alla voce stereofonia, per dire, ma quello era. Se prima la musica veniva composta per essere eseguita dal vivo, musica che solo da un certo momento in poi è stata incisa, da adesso in avanti la musica è stata composta in vista della sua incisione, e solo in un secondo momento, semmai, per essere eseguita dal vivo, spesso con arrangiamenti e produzioni differenti, altrettanto spesso senza neanche un’idea di esecuzione dal vivo (chi dice che si può giudicare un artista solo dopo averlo visto dal vivo mente, e di brutto, Mozart era un genio,e nessuno di noi lo ha visto dal vivo, per dire, e certe musica è irriproducibile dal vivo, ma comunque meravigliosa, sempre per dire).
Quando poi è arrivato il Cd, per molti vista come l’idea rivoluzionaria del futuro, la faccenda è cambiata. In peggio. Perché se è vero che lì il problema dei due lati non esisteva, e il tempo a disposizione era di più, la Philips ha fissato il limite intorno ai settantaquattro minuti, è vero anche che si è cominciato a pensare che quel minutaggio andasse riempito a tutti i costi, vai di brani inutili, vera e propria zavorra, a discapito della qualità. Ma il vero problema è stato un altro, il passaggio dall’analogico al digitale, andatevi a leggere il fondamentale saggio di Damon Krukowski “Ascoltare il rumore”, ha in qualche modo cominciato l’accelerazione verso quel degrado che alcuni già avevano intravisto nel sinthpop anni Ottanta, l’assenza di tridimensionalità, il rumore cui fa cenno Krukowksi, ha appiattito il suono, rendendolo in qualche modo meno “umano”. Il famoso discorso sul fruscio della puntina, quello che spesso viene tirato fuori a sproposito quando si vuole esaltare l’ascolto della musica col vinile, a questo dovrebbe far riferimento, all’assenza di dinamica e di prospettiva che il digitale ha portato con sé, anche se col tempo hanno provato a aggiustare il tiro, ovviamente, aggiungendo quelle prospettive sonore, quei rumori, in maniera coatta. Chi se ne frega del fruscio della puntina, a dirla tutta. Si è poi lavorato sul volume, alzandolo a dismisura, come una gara a chi ce l’ha più lungo (alto), andando spesso a distorcere, ma questa è altra faccenda. Il cd ha sostituito il vinile, poi è arrivato il file sharing, l’MP3 al posto delle Wav, la qualità che si abbassa ulteriormente, la gratuità che irrompe sulla scena, quasi uccidendo il settore. Per cristallizzare il momento, se serve, si guardi al progetto Song Reader di Beck, Beck Hansen, in combutta con la McSweeney’s di Dave Eggers, un album che viene fatto uscire senza supporto fisico, né ovviamente in streaming, parliamo del 2012, ma solo sotto forma di libretto di spartiti, della serie, se volete ascoltare le canzoni suonatevele. Un modo creativo per sottolineare come la musica incisa non valga più niente, sia diventata il corrispettivo della carta straccia. Al punto che, due anni dopo, il disco in questione uscirà, ma sarà un album di cover, un album di cover di canzoni mai incise prima, una specie di paradosso. Beck, del resto, è Beck. Suo quindi il requiem per il Cd e l’MP3.
Ecco quindi che lo streaming è parsa davvero un’ancora di salvezza, niente più furti, semmai una grande svendita, semigratuita. Il Cd è morto, pace all’anima sua, la pirateria divenuta inutile, visto che lo streaming è gratis o quasi gratis (e anche quello quasi gratis è spesso gratis, vedi al verbo “craccare”), così che la musica è diventata onnipresente. La si ascolta sempre e ovunque, e la si ascolta tendenzialmente male, con un supporto che non è fatto per ascoltare musica, e con una modalità che lo è ancora meno. Le frequenze si sono ridotte praticamente solo a quelle centrali, niente alte e niente basse, quindi anche le note di riferimento. Quando sentite dire, o dite voi stessi, che oggi la musica sembra tutta uguale, siete testimoni o testimonial di un dato di fatto, non è che sembra tutta uguale, è tutta uguale, dato per assodato che le note non sono sette ma al limite dodici, va detto che se di note ne tieni in conto tre le melodie che ne fuoriescono sono un numero finito, è un fatto. Zero dinamica, poi, perché i suoni piatti dello streaming la renderebbe inutile. Poca ritmica, sempre uguale, l’assenza di bassi a questo porta. Insomma, robaccia. Come quindi era successo col vinile e col cd, ecco che chi scrive musica scrive musica pensando allo streaming, e adeguandosi a queste logiche. Perché mai dovrebbe scrivere altro? Pensare che oggi il vinile torni in auge fa ridere, perché riversare su vinile musica scritta per lo streaming significa infilare in un supporto nato per l’analogico musica nata per tutt’altro fine, coi risultati che si possono ascoltare. Tutto è male quel che finisce male, verrebbe da chiosare. Anche perché, in genere, questo mio scrivere arriva al punto in cui dico che la musica incisa è roba recente, a differenza dell’editoria, che prevede le parole riprodotte anche meccanicamente molto più in là nel tempo, se mai la discografia dovesse morire, amen, ce ne faremo una ragione. Non c’erano dischi nel Settecento, per dire, chi voleva ascoltare musica alta, se era Imperatore si chiamava Mozart a casa, se non era l’Imperatore si arrangiava, o imparava a suonarsela da solo, o andava in piazza e nei teatri popolari, e si sentiva quel che passava il convento. Così potrebbe essere in futuro, i ricchi chiameranno gli artisti a suonare per loro, gli altri si beccheranno la robaccia, i concerti già oggi cominciano a presentare biglietti dai prezzi proibitivi, non fingete di meravigliarti per il mio presunto cinismo, tanto peggio di come stanno andando le cose oggi, credo, è difficile ipotizzarlo. L’idea di incidere la musica, in caso, si dimostrerà una specie di moda passeggera, o un fallimentare tentativo, e si tornerà a scriverla sugli spartiti, o a tramandarsela oralmente di generazione in generazione, di qui l’inconsistenza del parallelismo tra discografia e editoria, i libri di carta hanno retto assai più dei supporti fisici per la musica, e del resto l’editoria esiste da assai prima della discografia, mica per caso. Quindi, sì, ciclicamente mi ritrovo a fare i medesimi ragionamenti, roba che a qualcuno sembrerà materia da boomer, a qualcun altro da complottista in stile No Vax, e come un boomer o un complottista, in effetti, finisco per rimpiangere un passato che non era neanche tutta questa gran cosa e a pensare che il futuro non esista, sia solo l’invenzione di chi cerca di venderci sempre qualche pacco.