Alla domanda “Che cosa pensi dei nuovi filosofi?” Gilles Deleuze rispose: “Nulla. Credo infatti che sul nulla sia fondato il loro pensiero”. E seguì un’intervista che sempre più raramente oggi troverebbe spazio. Vuoi per la difficoltà delle risposte, vuoi per la necessità di dedicargli uno spazio antitetico a quello dei proclami, di quel giornalismo degli eventi che altro non era, per Deleuze, che un prodotto del marketing intellettuale. Non a caso l’intervista a Deleuze uscì nel supplemento della rivista Minuit, n. 24 (maggio 1997), afferente a un piccolo ecosistema editoriale delle Éditions de Minuit. Oggi si sente parlare principalmente di uno di loro, il belloccio, che sempre Deleuze definì il “disc-jockey” (o “la scrit-girl”) della Nouvelle philosophie: Bernard-Henri Lévy. Diventato un punto di riferimento in Francia per una certa corrente politico-filosofica europeista e liberale, dopo il successo dei suoi primi libri, tra cui quello scritto a quattro mani con André Glucksmann, I Padroni del pensiero, oggi BHL è principalmente ricordato per i suoi libri sulla guerra e per i suoi viaggi nelle aree in conflitto, ultimo tra tutti proprio l’Ucraina. Un interesse, quello per la terra invasa da Putin, che nasce 10 anni fa con l’inizio e il sostegno dell’Euromaidan, le rivolte che avrebbero portato un anno dopo alla destituzione del presidente ucraino Viktor Janukovyč.
Lo dimostrano i primi scritti raccolti in Dunque, la guerra! (La Nave di Teseo, 2023), un libro-manifesto, che esordisce con un “Ve l’avevo detto, io” grande come una casa. Nulla di male nel dire che BHL avesse previsto tutto. Compito dei filosofi dovrebbe essere, se non prenderci sempre, almeno “discorrere abbastanza” da avvicinarsi, quantomeno per motivi statistici, a un nocciolo di verosimiglianza. Non un’analisi, dunque, né un libro strettamente filosofico. Dunque, la guerra! ha in egual misura meriti e demeriti. Il primo della prima categoria è decisamente l’idealismo: BHL è lontano da qualsiasi forma di realismo, politico o strategico, protagonista in questi mesi, soprattutto dal lato antinterventista. Una cosa che, in sé, non lo dovrebbe distinguere da tanti altri contributi filoucraini usciti in questi mesi. Ma c’è una differenza. L’idealismo di BHL non è né politico né strettamente filosofico. È una sorta di ottimismo storico (o storicista?) che vede in un processo di europeizzazione il successo di assoluti concettuali di dubbia pregnanza teoretica: il Bene, il Progresso, l’Angelo (così chiamavano, i nuovi filosofi, ciò che si oppone al Potere; tutto rigorosamente in maiuscolo). Un merito dalla lama tagliente, è chiaro.
Infatti, tanto ottimismo presta il fianco, chiaramente, a uno dei difetti maggiori di questo libro. È un saggio per europeisti, infuocato, in cui non si dice nulla di nuovo perché pensato per chi già la pensa in questo modo. Un racconto che suona quasi a stelle e strisce, in cui la filosofia non va oltre l’occasionale citazionismo (tra cui un “cenere della grande stanchezza” di husserliana memoria che messo lì ha valenza, pare, più letteraria). Un libro che ha il respiro dell’attivismo militante di certo liberalismo equidistante da destra e sinistra, i cui atteggiamenti sono quelli che avrebbe potuto avere un americano vent’anni fa. Un attivismo di grande valore estetico, seppure carente sul piano argomentativo. Per intenderci: sembra non vi sia differenza tra il carattere specifico del libro e l’outfit del BHL, grazie al quale a più volte conquistato (anche a sua firma) le pagine del New York Times a Bazar. In particolar modo le camicie bianche di Chez Charvet. Camicie che possono arrivare a costare anche 500 euro. Le sue sono su misura, così come la giacca. Insomma, non si può dire che l’aspetto sia un elemento lasciato al caso. Tutt’altro. Certo, andare in territorio di guerra con addosso qualcosa come duemila euro di abbigliamento non è proprio come andarci con una camicia e un giubbotto antiproiettile, come tanti inviati e reporter. Ma lui non è un giornalista, anche se fa il giornalista, né tantomeno un politico, anche se parla di politica; e per lui è un vanto: “Per me l'inappartenenza è una possibilità, una risorsa. È un privilegio, senza dubbio. Un privilegio di artista, di scrittore. Ma è soprattutto una possibilità. Gli intellettuali hanno questa facoltà di inappartenere: che esseri come loro esistano e attraversino i confini, fa bene al resto degli umani”.
Non vuole parlare delle sue camicie, lo dice al NYT: “Non ha interesse a discutere l’indumento dolcemente sbottonato che per i suoi fan come per i suoi detrattori è diventato sinonimo del suo nome”. Eppure sembra che faccia parte non solo, come vorrebbero i critici, del suo personaggio televisivo, ma anche del suo pensiero. L’europeismo per BHL è anche questo: ricchezza. Non solo. Ricchezza da esportare. Così egli stesso è bandiera di un mondo che vorrebbe piacesse al suo pubblico, in Bangladesh così come a Kiev. La sua è una lotta, oggi, tutta orientata contro quella che ha definito “la capitale del crimine in Europa”, la Russia (p. 236). Una lotta che passa per un verbo usato da Putin contro l’Ucraina: “denazificare”. Al solito, le copertine de La nave di Teseo sono impeccabili. Occupa tutto lo spazio la foto di BHL tra le rovine a Kupiansk. Un’ombra che esce dalla scena, il sole alle spalle. Ancora una volta: come se stesse trainando l’Europa in Ucraina. È lì alla testa di una troupe con la quale vuole incunearsi nelle fitte reti del conflitto militare, pur non essendo un militare (o, ripetiamolo, un reporter). Non è lì per questo. Lo dice nuovamente quando scrive: “La guerra è davvero una cosa troppo seria per lasciarla fare soltanto ai militari!” (p. 311). Una guerra che, pur senza essere amata deve essere vinta (questo, parafrasando, il titolo dell’articolo appena citato).
BHL ha così smesso di essere filosofo ma senza pensare di diventare giornalista o politico. Pubblica libri che sono raccolte di articoli che sembra suggerire un lavoro giornalistico, giorno per giorno, che tuttavia non si concretizza in nulla di fattuale. Sono, al di là dei racconti personali, proclami. BHL sembra il mental coach che l’Europa merita da tempo, ma non ha mai voluto contrattualizzare (non viene certo pagare per il bel servizio che fa all’Europa). Un po’ come Oriana Fallaci se Fallaci fosse stata Sean Penn. Anzi: proprio Sean Penn, che almeno è andato in Ucraina in t-shirt attillata e non con il foulard. Per BHL è una questione di abitudine. Dal taglio di capelli (sempre lo stesso) alla trentennale collaborazione con Charvet per le sue camicie. Dalle giacche su misura alle stesse idee: l’opposizione ai cosiddetti “padroni del pensiero” (Marx, in particolar modo), la denuncia dell’antisemitismo strisciante. La rievocazione dei fantasmi che un tempo hanno reso l’Europa unita. Quindi meriti e demeriti, dove i meriti sono tutti comprensibili se si è già, come Lévy, europeisti convinti e di siffatta stoffa. Quella delle boutique francesi.