Incontro la bruna che mi piace, con il viso ammaccato dalla tristezza. Non le riesco a dire “hey”, “tu”, a chiamarla per nome. Dico: “amore”. Amore mio, che spezzi lo sfondo con la tua felpa azzurra e il tuo sguardo che ricambia il mio. Quanta poesia c’è nella poesia che risponde alla tua voce. Lo sapevano alle soglie dell’età moderna e un po’ prima, quei pazzi che pregavano e scrivevano dell’immagine cuncta videns, il volto di Cristo che ti dà gli occhi. Che ti segue. La poesia è meglio di Netflix e di OnlyFans. Non puoi metterla in pausa. Imbarazza i vigliacchi, ma non c’è chi ha più o meno esperienza, e non conta quanti vestiti ti restano addosso (il primo, il secondo strato dell’anima). Non devi per forza usare un linguaggio che non è tuo, sforzarti di trovare la cosa piccante. Non hai bisogno di dividere in generi, né di una connessione wi-fi. La poesia è lì. Era il 1° febbraio del 1829 quando Giacomo Leopardi scrisse su un fogliaccio del suo Zibaldone: “Dalla lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de' versi), si può, e forse meglio (anche in questi sì prosaici tempi), dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne: che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita”. Il gobbo di Recanati, che ce lo immaginiamo livido in volto e consunto dalla disperazione. Dimenticatevi il Leopardi del “mai una gioia”.
Altro che Netflix. Con un film puoi sorridere, piangere, puoi persino essere impressionato dalle immagini. Ma chiameresti mai per nome la casa, i giardini, il cielo? Davide Rondoni dice che la poesia cerca il nome proprio delle cose. Rubandogli un verso mi verrebbe da dire: “Il senso della principesca cavalcata”. Non serve tanto, alla poesia. Claudio Damianiscrive: “Dal mio piccolo punto di vista / vedo l’universo. Un rettangolino”. Certo, servi tu. Oggi tu è difficile da dire. Ad alcuni puzza. Invece tu, io, noi, o di che parli? Come fai a parlare di amore, di natura, di morte, se non dici qualcuno? Dovremmo tutti imparare da Ungaretti a gridare: “… le mie urla / feriscono / come fulmini / la campana fioca / del cielo”. Oggi si vive sotto a un “cielo di plastica”, così lo ha chiamato il filosofo Luigi Alici in un libro che dice anche molto altro, per esempio: “Il bene non ha una doppia vita”. Vale lo stesso per la poesia. La poesia, quella vera, non ha una doppia vita. È chiara e fa impallidire “il discorso devastante / del mercadante”. Non che sia facile, dico, continuare a immaginare questa purezza, che è la purezza degli incontri ma anche degli addii: “Di questi gridi siamo fatti, di figli / che non torneranno” scrive Gabriel Del Sarto. Vedi, torna questo grido.
Qualche tempo fa un ministro ha detto: “La disperazione non può mai giustificare viaggi pericolosi per la vita dei figli”. Discorsi senza logica. Uno scrittore è a processo per aver usato questa parola: “bastardi”. Una parola senza peso, sbranata invece che pronunciata, senza contenuto. Una parola lì, per insultare. Nella poesia vale tutto, è chiaro. Nel suo ultimo libro, Exfanzia, Valerio Magrelli parla della bestemmia: “Se inciampo e bestemmio, / è perché la bestemmia fa da anello / all’infinita catena che lo schiavo / divide con il suo crudele Dio”. Non avvertite la differenza? Io sì. Il primo è sesso, il secondo è amore. Le parole del ministro e i discorsi pubblici degli scrittori invecchiano male. Come un gesto meccanico per cercare il piacere. Ma l’amore è lì, se possibile olia i corpi e i baci. La poesia fa l’amore con il pensiero e con la vita. Fa a botte. È grata. Oggi con le parole facciamo tutto, soprattutto dare indicazioni. Da TikTok al navigatore della macchina, qualcuno ci dice come muoverci, dove svoltare, dove mettere il braccio. La poesia no. Ti fa fermare a riflettere. Filippo Davoli: “Io sto nell’alba come sto nella vita”. Forse anche per questo varrebbe la pena di festeggiare la poesia. Ma non solo oggi. È una questione di costanza. Con Nicola Bultrini: “Ci vuole garbo per tenere il giardino / almeno decente”. Ma che si debba coltivare non c’è dubbio.