Un palco sold out all'Unipol Forum di Assago. Un pubblico in delirio. E al centro, con la sua voce limpida e una storia straordinaria, Alban Skënderaj: il primo artista albanese a riempire uno dei templi della musica italiana (MOW c'era). Un evento storico che racconta molto più di una carriera musicale di successo: parla di identità, migrazione, talento, e di un legame profondo tra due sponde dell’Adriatico. A dialogare con lui, in questa intervista esclusiva, non poteva che essere Naike Rivelli, attrice, cantante, performer, che ha realizzato per MOW questa conversazione intima, sincera e potente con la popstar albanese. In questo dialogo, con delicatezza e curiosità, ci fa conoscere meglio la voce e un artista che ha attraversato guerre, confini e paure, ma che non ha mai perso la bussola della sua musica. Dal campo profughi all’adolescenza in Italia, dalla prima chitarra alle grandi hit, ci spiega il suo percorso con disarmante umiltà. E lo fa tra ricordi, emozioni, aneddoti e quella voglia - particolarmente nobile in questo periodo di egoismi – di restituire qualcosa ai più giovani.

Allora, com’è stato essere il primo artista albanese sold out in Italia?
Bello, davvero! Un’esperienza intensa, emozionante. C’era tanta attesa, tante aspettative, ma poi quando sali su quel palco, davanti a tutta quella gente, ti rendi conto che tutto è andato al posto giusto. Eravamo pronti, ma l’energia del Forum ci ha sorpresi comunque.
Hai fatto la storia: sei stato il primo a riempire il Forum di Assago.
È stato un traguardo enorme. Per qualunque cantante lo sarebbe, ma per me aveva un valore doppio, forse triplo. Intanto perché è successo in Italia, un Paese a cui sono profondamente legato. Ci ho vissuto dieci anni, fondamentali, che mi hanno formato e scolpito come persona e come artista. E poi perché ha significato qualcosa anche per la mia gente, per l’Albania, per la nostra musica.
Ti si legge addosso un grande senso di gratitudine.
Sì, è vero. L’Albania è un Paese piccolo, ma oggi stiamo crescendo anche a livello musicale. Sempre più persone si appassionano agli spettacoli, ai grandi show, e poter essere parte di questo processo, e farlo anche da qui, in Italia, è davvero importante per me.

Il tuo percorso è incredibile. Sei arrivato in Italia in nave e hai trascorso un periodo in un campo profughi, mentre oggi sei una popstar internazionale.
È qualcosa che porto sempre con me. Non è una parentesi del passato, è la base di tutto. È ciò che cerco di trasmettere nelle mie canzoni. Anche oggi, con una carriera consolidata, non dimentico da dove sono partito. Anzi, più il tempo passa, più sento il bisogno di raccontarlo.
Come mai?
Perché quando si fa musica ci si può isolare, ma per me è fondamentale parlare a tutti, essere comprensibile e accessibile. Vengo da un Paese che ha vissuto tante difficoltà, e credo che sia giusto ricordare sempre le proprie radici. Perché è l’unico modo per sapere dove si vuole andare. E se questa storia può ispirare qualcuno che oggi si trova in difficoltà, allora ha ancora più senso raccontarla.
Quando hai capito che la musica era la tua strada?
Diciamo che me lo sono costruito passo dopo passo. In Albania era difficile, negli anni '90 era tutto complicato. Quando sono arrivato in Italia, nel 1997, ho trovato un terreno più fertile, anche se ero molto timido e insicuro. Ma un mese dopo il mio arrivo, per il quindicesimo compleanno, mi regalarono una chitarra. Quella ha cambiato tutto. Ho iniziato a scrivere, a suonare, a cantare. Ci ho messo un po’ a credere davvero in me stesso, ma da lì è cominciato tutto.
Quella chitarra ce l’hai ancora?
Purtroppo no. Era a casa dei miei genitori, che poi si sono trasferiti un paio di volte, e credo si sia persa. È un peccato, ma ho altre chitarre importanti per me. Per esempio, ne ho una semplicissima, che ho fatto verniciare di bianco per abbinarla al look del concerto. Con quella ho scritto tante canzoni diventate hit in Albania. E ho deciso che la regalerò a un giovane chitarrista. Mi piace farlo: passare il testimone. L’ho già fatto altre volte. È un gesto simbolico, ma potente.
La tua musica risente più delle influenze albanesi o italiane?
È decisamente un misto. Con il tempo ho riscoperto sempre di più il mio Paese, ma l’Italia ha avuto un peso enorme sulla mia formazione artistica. E poi ci sono state anche le influenze anglo-americane: ho ascoltato tanta musica inglese e americana. Tutto questo si mescola e dà vita al mio stile. È un mix culturale che riflette esattamente il mio percorso.
Quindi, se dovessi definire il tuo sound oggi, come lo descriveresti?
Direi che è un sound europeo, nel senso più ampio del termine. Ha un’anima mediterranea, con radici albanesi profonde, ma è arricchito dalla melodia e dalla scrittura italiana, e influenzato anche dalle sonorità internazionali. La mia musica vuole essere un ponte: tra culture, tra lingue, tra storie. Per questo non amo chiudermi in un’etichetta. Preferisco pensare che ogni brano sia un pezzo della mia storia e, spero, anche di chi lo ascolta.
