Il primo semestre 2023 dice chiaramente che il mercato discografico italiano è in salute. Sta bene, meglio di quanto si potesse prevedere. Sony Music Italia, poi, grazie alle dieci settimane consecutive di Tedua al numero uno della classifica degli album, ha appena registrato un risultato di cui va giustamente orgogliosa: 23 settimane in vetta sulle 34 dell’anno in corso (al momento in cui scriviamo). Così, per una discografia che negli ultimi quattro lustri ne ha passate di tutti i colori, reinventandosi varie volte sempre alla ricerca di un modus operandi non solo volto a “difendere il patrimonio” (il catalogo), i risultati sono lusinghieri e vanno celebrati.
Gli inequivocabili dati del mercato (sempre per il primo semestre 2023: + 9.4% per le vendite dei supporti fisici, +16% sia per il digitale che per lo streaming; infine, leggera flessione per le sincronizzazioni, che perdono lo 0.8%) ci lasciano comunque in bocca il retrogusto dell’insoddisfazione. Considerando che lo streaming stravince rispetto a tutto il resto (copre l’81% del market share complessivo; l’audio streaming in abbonamento vola a un +152%), spulciando le classifiche Fimi ci siamo chiesti: ma perché a tutti questi trionfi non sempre corrispondono nomi/artisti/figure così popolari? Per capirci: anni addietro – con una discografia agganciata prima, unicamente, alle vendite del formato fisico, poi anche al download – se vendevi centinaia di migliaia di copie di un album, probabilmente ti conosceva, almeno come “sentito dire”, anche il nonno sordo del tuo vecchio amico delle medie. In classifica i classici nomi “sulla bocca di tutti” non facevano prigionieri, pensiamo a Vasco Rossi, Claudio Baglioni, Zucchero, Raf, Ligabue (per non parlare poi di tutti gli stranieri). Onnipresenti. Oggi le vittorie e i podi si celebrano ugualmente e così dev’essere, ma a guardare chi ha fatto (e sta facendo) incetta di primi, secondi, terzi posti in questi mesi del 2023 c’è da farsi qualche domanda.
Se i primissimi mesi dell’anno, guidati dal trittico Gué-Måneskin-Lazza, farebbero pensare che nulla è drasticamente cambiato rispetto al passato, i nomi che si sono succeduti ai primi posti dopo l’exploit di fine marzo di U2 e Depeche Mode, lasciano perplessi. Geolier (scuderia Sony) svetta nei primi giorni di aprile, in una settimana in cui al terzo posto c’è Nitro. Per una settimana lascia il primo posto a Blanco, per poi tornare in cima in un periodo in cui un Vinicio Capossela in flessione di popolarità raggiunge il quinto posto e un nuovo album di Mina, dal profilo ancora più basso del solito, si piazza quarto. In maggio il monologo di Geolier continua, ma non troppo lontano dalla vetta troviamo il disco di Mecna, altro artista mai davvero “per tutti”. Da quando negli ultimi mesi la classifica diventa un feudo di Tedua (solo due le settimane di vetta concesse a Travis Scott), il trend non cambia. Le parti alte della classifica italiana degli album continuano ad essere disinvolto pascolo di nomi di cui non stiamo mettendo in dubbio nulla, sia chiaro, a partire da quella “qualità” sempre così difficile da determinare, definire, afferrare. Sulla reale popolarità di certi acts – quel profumo trasversale che unisce le file fuori da San Siro in attesa che aprano i cancelli a una chiacchiera casuale dal fruttivendolo – qualche dubbio invece sorge. Drillionaire? Shiva? Artie 5ive? Gli ultimi Boomdabash? Tutti album – e quindi, oggi più che mai, “collezioni di pezzi” – così di dominio pubblico?
La sensazione è che ci siano in gioco dinamiche che creano strane dissonanze. Il conteggio delle vendite – che nel panorama complessivo riguarda solo per il 17% i prodotti fisici e il 2% il download – non fa che certificare il netto trionfo di uno streaming probabilmente calcolato in modo troppo generoso. Su come unire i dati dello streaming a quelli delle vendite tradizionali (quelle fisiche) per stilare un’unica classifica, Fimi è chiara: ““Il conversion rate – utilizzato per rendere omogenei gli ascolti in streaming premium, il download e l’acquisto del supporto fisico – si ottiene moltiplicando il conversion rate dei singoli (1 download digitale = 130 ascolti in streaming premium) per l’Equivalent Album Track (10 brani)”. E ancora: “Ai fini delle classifiche sono inclusi gli audio streaming premium (effettuati da abbonati paganti) fino a un massimo di 10 ascolti per utente al giorno”. Così pare tutto più comprensibile: lo streaming, che si mangia gran parte della torta, è il modo più pop, giovane – ma anche ossessivo, per chi in altri tempi avrebbe “consumato” il vinile a forza di ascolti; o distratto, per chi lascia andare il computer o lo stereo mentre fa altre cose – di fruire musica. Un modo che premia idoli teen raramente in grado di raggiungere, se non di sbieco, un pubblico di non adepti. Questo rende le attuali classifiche più ambigue di prima, se ancora intendiamo affidarci a loro per capire cosa compra o consuma “la gente”. Da una parte troviamo i soliti sospetti (avrebbero potuto non esserci i Måneskin, Blanco, o addirittura, seppur per poco, gli ultimi Depeche Mode?). Dall’altra, lo streaming ha trasformato la classifica – anche quella degli album, teoricamente la più “adulta” – nella bussola che, in sostanza, ci informa su cosa ascoltano i giovanissimi. In questo modo sfugge, per forza, una fotografia più ampia di ciò che il Paese musicalmente consuma. È perciò lecito chiedersi quale canzone canti “quel Tedua che è sempre primo”. Non è detto che in questo momento la famosa “giovane barista” – un tempo il termometro popolare per antonomasia – lo sappia. Per ottenere una risposta meglio rivolgersi al nipote della medesima barista.