Anni fa in pochi avrebbero creduto che il remake di Mulan – kolossal d'animazione del 1998 che racconta la leggendaria eroina cinese Hua Mulan, determinata guerriera arruolatasi in un esercito di soli uomini – sarebbe diventato il più grosso problema della Disney.
Invece il nuovo Mulan si sta rapidamente trasformando in una “patata bollente politica”, per usare la più recente definizione della testata statunitense Bloomberg. La circostanza riflette i legami logori degli Stati Uniti con Pechino, e le scelte che le aziende devono affrontare quando operano nello scenario estremamente politicizzato – ma al contempo redditizio – che è la Cina moderna.
Tutto è cominciato quando la protagonista del remake in live action, la 33enne Liu Yifei, si è schierata a favore della polizia di Hong Kong, la stessa impegnata a reprimere spesso con estrema violenza le proteste cominciate lo scorso giugno nell’ex colonia britannica. Hong Kong porta avanti una storica battaglia per la democrazia e l’autonomia dal governo centrale di Pechino, battaglia che si è fatta più intensa in occasione di un emendamento sull’estradizione. Quest’ultimo farebbe sì che cittadini di Hong Kong accusati di alcuni crimini possano essere processati nella Cina continentale.
Le parole di Liu Yifei, lette come un’approvazione dello scenario antidemocratico e un appoggio incondizionato all’esecutivo cinese, hanno scatenato una vera e propria controversia internazionale, tanto da far nascere nel giro di poche ore un hashtag destinato a diventare popolarissimo: #BoycottMulan.
Palesemente finalizzato a supportare il boicottaggio della pellicola, l’hashtag presto fattosi movimento ha avuto come prima conseguenza diretta l’assenza dell’attrice al D23 Expo 2019, in occasione di un’anteprima esclusiva del film. Ma soprattutto ha catalizzato un’attenzione spasmodica su ogni dettaglio della pellicola, successivamente nell’occhio del ciclone a causa della collaborazione sul fronte produttivo di sei agenzie governative cinesi operanti nello Xinjiang. Quest’ultima è un’area a nord-ovest della Cina, sede negli anni di quella che secondo molti è stata la detenzione di almeno 1 milione di persone appartenenti al popolo di etnia uigura in campi di concentramento, che ufficialmente il governo cinese etichetta come in campi “trasformazione attraverso l'educazione”.
La Disney ha apertamente ringraziato le autorità di quella Regione nei titoli di coda del film.
L’approdo sul fronte politico è stata una diretta conseguenza, con il senatore Tom Cotton, repubblicano dell'Arkansas, che ha attaccato duramente la Disney, accusando il gigante dell’entertainment di essere dipendente dal denaro cinese e disposto a tutto per compiacere il Partito Comunista.
Ma la Disney non è certo l’ultima compagnia statunitense a trovarsi al centro di controversie sociopolitiche che coinvolgono la Cina. L'anno scorso, la National Basketball Association ha vissuto settimane di profondo caos dopo che un team manager ha twittato a sostegno dei manifestanti di Hong Kong, provocando persino una sospensione di alcuni match. Mentre il film della DreamWorks Animation “Il piccolo yeti” (“Abominable”) ha suscitato forti critiche in tutto il sud-est asiatico, per aver mostrato una mappa che riflette una suddivisione territoriale fortemente contestata in Paesi come Vietnam, Filippine e Malesia, che di rimando hanno boicottato la pellicola o tagliato l’intera scena incriminata.
Va sottolineato che la Disney ha molto in gioco in Cina. L'azienda ha speso 5,5 miliardi di dollari per lo sviluppo del suo resort Shanghai Disneyland, e ha ampliato il suo parco di Hong Kong. Anche il mercato cinematografico è sulla buona strada per diventare il maggiore al mondo. Ma con repubblicani e democratici concentrati sul commercio cinese e sulle questioni culturali – entrambi elementi portati alle presidenziali – appare quasi scontato che la società continui a trovarsi nel bel mezzo del fuoco incrociato politico.